Lo scandaloso signor Lacan (1991)

di Pier Aldo Rovatti, repubblica.it, 30 ottobre 1991 

A dieci anni dalla morte del maître (1981), che ne è di Jacques Lacan e della sua scuola? I vizi ben noti del lacanismo (gergo, propensione intellettualistica, superiority complex, tendenza alla sacralità), all’opera già dallo scoppio della voga alla fine dei Sessanta, hanno preso ancor più piede nel dopo Lacan, oppure sono stati bilanciati, e magari sopravanzati, da virtù altrettanto accertabili testi alla mano (l’indiscussa originalità teorico-pratica)? E, inoltre, che credito possiamo attribuire alla sensazione di un declino di attualità e a una certa aria da capitolo chiuso? Le cronache aggiornate di un’istituzione che ha sempre fatto di tutto per non ritrovarsi tale (appunto la “scuola” di Lacan) ci parlano di un’eredità difficile che si gioca in un campo di battaglia centrale, quello parigino, tra gruppi non propriamente armonici e scambi di accuse (la più diffusa rivolta all’erede “ufficiale” Jacques-Alain Miller e ai suoi supposti cedimenti “universitari”), e poi si riverbera sui campi secondari, per esempio sull’intricato lacanismo italiano. Quanto a Parigi, il gruppo di Miller ha gestito il decennio promuovendo dosate iniziative (tra cui la pubblicazione di alcuni tra i famosi Seminari), mentre altri piccoli gruppi più “esterni” e interessati all’identità del lavoro clinico andavano via via riconoscendo i limiti del loro essere frammentati fino alla recente ipotesi di un’inter-associazione: quasi un contromovimento rispetto alle periodiche insofferenze di Lacan, che in vita si era mostrato più incline a secessioni e scioglimenti.
In Italia, già assai lontana la preistoria del cosiddetto “tripode” (Drazien, Contri, Verdiglione), e tramontato il folclorismo sintomatico di quest’ultimo, gli analisti lacaniani oggi saranno un centinaio e non certo uniti sotto una sola bandiera: lavorano in grande prevalenza a Milano, Roma, Torino e anche Napoli, si stanno fattivamente chiedendo come collocarsi nel nuovo assetto istituzionale della psicoanalisi (dopo la “legge Ossicini”), e ora una buona fetta di essi si riunisce a convegno a Roma (1-3 novembre, Sala dello Stenditoio al numero 22 del complesso di San Michele a Ripa) domandandosi “Se la psicoanalisi è… terapia, scienza, etica” (è il titolo delle tre giornate), alla presenza di due dei maggiori lacaniani francesi, Charles Melman e Moustapha Safouan, nonché di una nutrita rappresentanza del lacanismo internazionale. Anche in Italia troviamo i “milleriani” (che fanno ponte con Parigi sotto il titolo della appena nata “Scuola europea di psicoanalisi”, gravitante da noi più che altro su Milano, e attraverso una rivista, “La psicoanalisi”, che si stampa a Roma) con Carlo Viganò e Antonio Di Ciaccia; e poi, ma in modo meno contrapposto, vari altri raggruppamenti: “La cosa freudiana” di Roma con Muriel Drazien e Marisa Fiumanò, la torinese “Associazione freudiana” con Costantino Gilardi, il gruppo napoletano di Paola Carola, la cerchia milanese di Giacomo Contri, non contando la rivista Il piccolo Hans di Sergio Finzi (che, adesso fa per conto suo). Ovviamente il convegno romano vuole mettere in gioco qualcosa di più che non la semplice celebrazione del decennale o magari una risposta alla domanda proposta dal titolo (per la quale anticiperei un’ipotesi: un triplice sì con progressivo coinvolgimento, meno terapia che sapere, meno sapere che etica).
Servendomi del termine “significante”, così caro alla scuola (per Lacan, che l’inconscio sia “strutturato come un linguaggio” è la premessa maggiore), direi che in gioco sono le sorti del significante “psicoanalisi” con l’idea che tali sorti, oggi abbastanza travagliate, possano essere soprattutto sorrette dal significante “Lacan”. Ovvero, dicendo pane al pane: il pensiero di Lacan (teoria e clinica non disgiunte), tutt’altro che sepolto dagli effetti negativi di certo lacanismo e tutt’altro che addormentato in un’apatia da fenomeno che avrebbe ormai fatto il suo tempo, potrebbe funzionare come una solida sponda per cercare di contenere la disgregazione della psicoanalisi nel mare indistinto e alquanto dubbio delle psicoterapie a vario o a nessun titolo. Annacquamento, con rischio di perdita di specificità da parte della psicoanalisi, che è effettivamente sotto gli occhi di tutti e che va di pari passo con l’entrata delle formule di Freud quasi in ogni aspetto del quotidiano e del relativo nostro linguaggio comune. Qualcuno, anni fa, poco amico della psicoanalisi e con l’occhio a quanto stava accadendo negli Stati Uniti, l’aveva battezzato il “fenomeno psi”. È indubbio che il fenomeno psi si è fatto largo, anche in Italia, nelle strutture e nei modi di dire e di pensare (non così meno importanti), e che la parola “psicoanalisi” è fra quelle che sta subendo uno dei maggiori tassi di svalutazione per logorio da uso indiscriminato.
Ormai congedata l’epoca della moda e se saprà davvero svincolarsi dal lacanismo (ma qui rimane un problema aperto), il pensiero di Lacan risulta effettivamente il più equipaggiato a svolgere questo ruolo di contenimento e di rilancio. Non si vedono infatti all’orizzonte altri “ritorni a Freud” che garantiscano un pari spessore filosofico e culturale (Hegel, Heidegger, Saussure, Jakobson, nonché prelievi da Lévi-Strauss e dalla topologia, il tutto non ripetuto ma ripensato in chiave originale e rigorosamente dalla prospettiva dell’analisi). E può darsi che sia proprio la cifra clamorosamente critica ad aver subito un oscuramento nelle nebbie degli effetti deteriori: e cioè il carattere da cima a fondo anti-istituzionale (in senso lato) che ha ispirato il lavoro svolto da Lacan, nelle sue sedute nella mitica rue de Lille 5, nei suoi affollatissimi seminari-evento che hanno tenuto la scena parigina per tre decenni, negli Scritti tutti ancora da rileggere, se non propriamente da leggere.
Per parte sua, il decennale ha reso disponibili due seminari in francese (Le transfert e L’envers de la psychanalyse), uno in traduzione italiana (quello sull’Io presso Einaudi) e gli atti di un importante convegno su Lacan avec les philosophes (presso Albin Michel). L’auspicata attenzione verso questa cifra critica ci direbbe come Lacan si sia messo dinanzi a Freud e al freudismo, ovvero alle parole chiave e già usurate della psicoanalisi (quali pulsione, desiderio, inconscio, ecc.), esercitando l’allarmante dubbio se esse significassero ancora qualcosa di teoricamente consistente e se in ogni caso quello che si suppone che esse dicano corrisponda a quanto potrebbero e dovrebbero dirci. Un dubbio pesante, come si vede, e che si estende alla pratica dell’analisi (di qui le “scandalose” riforme tentate da Lacan) e al modo stesso in cui può avere realtà un’istituzione psicoanalitica. Al cui ultimo proposito va ricordato che Lacan non è stato solo quel dissolutore che si è ricordato, ma ha avuto cura di “passare” ai suoi allievi l’etica del piccolo gruppo e il rispetto prioritario dell’elaborazione individuale di ciascun analista. Il contrario di quello che si supporrebbe osservando il fenomeno dall’esterno e magari a partire dai suoi aspetti involutivi. Nella sua testimonianza personale (che compare qui sotto), Umberto Eco confessa: “La mia lettura di Lacan fu affascinata e diffidente al tempo stesso”. E conclude: “Lo ricordo come un essere adorabile, stregonesco, spietato. Un seduttore”. Fu l’impressione di molti, e comunque di tutti quelli che lo conobbero, magari animati da grande diffidenza. Il problema di oggi è però quello di archiviare quest’immagine di seduttore e di vedere se è possibile far cultura psicoanalitica attraverso Lacan, magari cominciando a dar davvero conto di questa stessa ambivalente immagine.

http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/1991/10/30/lo-scandaloso-signor-lacan.html

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