Di chi sono le parole di Lacan

di Enrico Regazzoni, repubblica.it, 11 novembre 1991

“Se la psicoanalisi è terapia scienza etica”, è il titolo della gran kermesse lacaniana che si apre oggi a San Michele a Ripa, in Roma. E “L’etica” è anche il titolo del seminario di Lacan che Giacomo Contri, psicoanalista, è pronto a consegnare all’Einaudi per la stampa. Datato 58-59, il seminario sull’etica è considerato centrale nel pensiero di Lacan: da cui – secondo gli esegeti del lacanismo – si svilupperanno tutti i seminari successivi. Orale anch’esso, come tutti gli altri: ma il solo che avrebbe voluto scrivere, dichiarò il maestro. “E ne aveva ben donde, perché in questo seminario Lacan si condensa tutto”, mi spiega Contri, che ebbe direttamente dal grande analista l’incarico di seguire i suoi scritti in Italia (e che per l’Einaudi ha già curato gli Ecrits e cinque seminari). “Proprio qui, nell'”Etica”, lui raccoglie la sua controversia con sé stesso. Fino all’ultimo non ha deciso se essere il massimo di freudismo o il massimo di antifreudismo, e “L’etica” è la polveriera di questo conflitto.

Freud aveva fatto rientrare l’etica nella scienza, con effetti dirompenti. Lacan è d’accordo, e dapprima lavora anche lui in tal senso. Ma poi finisce per capovolgere tutto, e formula un’etica subordinata alla scienza”. La questione è sottile. A Freud, che dichiarava di non conoscere che due scienze – la fisica e la psicologia – Lacan finirà col rispondere che anche lui non conosce che due scienze, la fisica e la matematica. Rigettando la psicologia, e accogliendo la matematica, l’etica subirà un brusco ridimensionamento: avere l’inconscio diventerà, per Lacan, “essere servi del simbolico” e le chiavi del simbolico lui le tratterà in modo matematico. “Ma tutto questo senza alcun piglio assertivo”, prosegue Contri. “Perché in tale procedimento Lacan si detesta, ce l’ha con se stesso. Ed ecco che il suo seminario sull’etica diventa piuttosto un colossale lemmario di questioni che riguardano l’ etica, una sorta di dizionario enciclopedico al quale abbeverarsi. Ciò che, del resto, è la vera identità dello stesso Lacan: un pensatore al quale abbeverarsi, cogliendo l’inconcludenza che lo esaspera”.

Da “L’etica, e ancor più dalla metafora di Lacan-abbeveratoio, il discorso si sposta naturalmente sull’annosa querelle che riguarda tutti i seminari lacaniani, e cioè quella disputa sull’eredità che periodicamente finisce sulle scrivanie dei giudici francesi. Les éditions de Seuil iniziarono la pubblicazione dei seminari nel 1975, quando il maestro era ancora in vita. E a tutt’oggi, in Francia, ne sono apparsi otto, di ventisei che sono: ma dalla morte di Lacan, avvenuta nel 1981, la figlia Judith e il genero Jacques-Alain Miller hanno avuto il loro daffare nel difendere il diritto – vero o presunto – di unici proprietari delle lezioni lacaniane. Per due volte il tribunale ha dato loro ragione, condannando quegli editori che si erano avventurati in edizioni pirata di questo o quel seminario. Per contro, i fedelissimi del maestro accusano i due eredi di sequestro di pensiero, lentezza di pubblicazione, errori di trascrizione. Col risultato che i seminari, oltre che nei volumi di Seuil, sono reperibili in un paio di librerie parigine sotto forma di dispense. Anonime, e perciò non perseguibili legalmente. La faccenda – evidentemente – è resa molto delicata dalla natura orale dell’insegnamento lacaniano.

Differentemente da Freud – che lasciò il suo pensiero nero su bianco – Lacan infatti scrisse ben poco, e dal 1960 in poi si rivolse agli allievi con la sola parola: e i suoi seminari furono raccolti da una foresta di microfoni. A chi appartengano, oggi, quelle parole, non è semplice stabilire. “Sul piano giuridico c’è un testamento e quindi una proprietà”, sostiene Contri. “Però esiste anche un altro piano, sul quale si deve tener conto del rapporto fra insegnante e allievo. C’è qualcosa di comunistico, nell’insegnamento orale, una sorta di donazione che ha come riferimento l’allievo, non il pubblico. Ora, io non so se di qui al giudizio universale sarà possibile mettere a punto il concetto di allievo. Ma, nel frattempo, la massima liberalità giuridica, al riguardo, mi sembrerebbe semplicemente corretta”.

Allievo, élève: era un termine fondante per Lacan, proprio come quello di scuola, che lui pensava sempre con la esse maiuscola. E i suoi seminari erano stati fin dall’inizio magistrali, nel senso più stretto della parola. Un piccolo gruppo, una Scuola in casa del maestro: la lezione, la discussione finale, talvolta la relazione conclusiva di un allievo cui era stato dato un tema da svolgere. Col tempo, per ragioni di spazio, il seminario divenne itinerante, vagando per le aule disponibili. Ugualmente, scomparve la discussione di chiusura. Ma il corso – sempre preparato con accuratezza – non venne mai meno. “Quando vi parlo, lo faccio dal posto dell’analizzante”, cioè del paziente, ripeteva Lacan, a sottolineare che il vero lavoro, in analisi, non è quello dell’analista ma quello di chi si fa analizzare. Anche se ritmate dai modi tipici del docente (che può battere il pugno sul tavolo per zittire l’allievo), le parole del suo seminario erano quelle del singolo che sta compiendo la sua analisi. E, in questo senso, il suo insegnamento non poteva essere che orale. “Per questo è assurdo sostenere che una certa edizione è più fedele di un’altra”, conclude Contri. “Il testo originario è la stenotipia, e se l’abbiamo in tre, tutti e tre possiamo editarla. Del resto, l’assenza del testo base, del vangelo, era teorizzata da Lacan: per lui il prototipo era orale, lo scritto non aveva prototipo. Ecco perché un nuovo atteggiamento giuridico, più aperto, non farebbe che prender atto dello stato delle cose, dell’ impossibilità di perimetrare l’insegnamento lacaniano. Meglio ancora: la liberalità giuridica, nel caso di Lacan, è auspicabile perché il fatto non sussiste, per non aver commesso il fatto. E cioè il testo autentico”.

http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/1991/11/01/di-chi-sono-le-parole-di-lacan.html

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