di Nadia Fusini, repubblica.it, 18 febbraio 2005
Nel setting propriamente analitico, come si sa, la parola è voce, parola alata, orale. Di psicoanalisi, però, anche si scrive. C’è una teoria e una storia, ormai, della psicoanalisi, consegnata alla parola scritta. Anche se si potrebbe a ragione sostenere – c’è chi l’ha fatto – che la storia della psicoanalisi tradisce il carattere proprio della costruzione analitica, e l’istituzione universitaria contraddice la sua vocazione più intima all’apprensione “puntuale” di una verità che sfugge agli statuti del sapere. Per questo forse più degli Scritti di Lacan a me piacciono i Seminari, dove Lacan non scrive, ma parla: è il modo in cui prende e mantiene la parola che trovo davvero interessante. E’come se Lacan sapesse restituire, nel modo in cui parla, il movimento stesso del pensiero, il suo cammino. Questo accade esemplarmente nei Seminari, cioè quando Lacan insegna; è allora in particolare che Lacan si preoccupa di mantenere la parola “viva”. In altri termini, Lacan pratica un insegnamento “orale” in cui la psicoanalisi non è tanto materia di insegnamento, quanto, piuttosto, un modo di tenere in tensione permanente e perenne il “discorso”, sì che l’energia discorsiva muova insieme la domanda di chi insegna interrogando e di chi ascolta interpretando.
Si è detto di Lacan che è un grande manierista, che pratica un’arte consumata del trompe l’oeil, che è un prezioso, che più che un ritorno a Freud abbia operato una proliferazione bizantina del suo discorso. Non è così per me. Per me Jacques Lacan è l’autore di certi libri che ho letto e rileggo perché in essi trovo qualcosa che dà nutrimento alla mia ricerca di senso. Il senso oltre che nella vita io lo cerco nella letteratura. In entrambi i campi, la lettura dei libri di Lacan mi serve. In questo Seminario, Libro V – che raccoglie le lezioni da lui tenute nell’anno 1957-58 (Einaudi, pagg. 529, euro 35,00) – a tema sono le formazioni dell’inconscio.
Il testo del seminario è stato stabilito da Jacques-Alain Miller; e tradotto in modo eccellente da Antonio di Ciaccia. Mi fermo un attimo sulla traduzione per dire che mai come in questo caso vale la regola che per tradurre un autore bisogna intenderlo. E aggiungo anche che solo una conoscenza profonda dell’insegnamento del maestro può produrre discepoli di tale qualità. Dico maestro perché al di là degli esiti della sua scuola io credo che Lacan lo sia stato – un maestro. E abbia formato uno stuolo non folto, anzi, piuttosto scelto di pochi iniziati “apostoli della sua parola”. Li chiama lui così, in questo seminario, con l’evidente invito a che vadano per il mondo a diffondere la sua parola. E un ottimo modo per diffondere la parola del maestro è senz’altro di tradurla, e di tradurla come fa Di Ciaccia, prolungando in un’altra lingua il suo “tono”. La traduzione – arte di cui non si dovrà mai smettere di vantare l’eccellenza, quando come in questo caso si dia – è un modo di ascolto della parola che accade se chi la pratica ha orecchio al tempo, al ritmo. E nel discorso lacaniano, il tempo, il ritmo è tutto.
Lacan – sappiamo – si colloca spontaneamente dopo Freud. Ma la collocazione non vale in senso cronologico, la ripresa semmai è teoretica, astorica, in certo senso. E’ dopo e accanto a Freud che Lacan ripensa certe questioni – la cui natura egli non si stanca di definire irresolvibile. In questo seminario in particolare torna a riflettere sul motto di spirito, sullo spirito comico, sull’inconscio e le sue formazioni, o creazioni. Le preoccupazioni sono quelle che altrove ha definito necessarie, e cioè tali che non cesseranno di non passare: questioni intramontabili come l’Edipo, il bisogno e il desiderio e la domanda, la metafora e la metonimia, che qui vengono riprese a partire dalla loro insistenza in termini di logica della castrazione, di significanza del fallo, di dialettica del desiderio. Il modo dell’interrogazione è quello di chi si morde la coda: è lui stesso a confessarlo. E’ un modo di procedere che irrita molti, e a me invece rassicura. Quando penso, quando cammino, io ho sempre il sentimento che il movimento sia sferico; ovvero, ho l’intima convinzione che tutte le strade portano a Roma, e tutti i pensieri alla questione centrale, e cioè che destino final y partida di ogni questione per l’uomo sia il suo rapporto fondamentale con il significante. Ovvero, con la lingua. Cioè a dire: l’essere umano è quello che è per via del suo rapporto col simbolico.
Ecco perché mi interessa Lacan. Perché da ogni elemento immaginario così come si configura nell’esistenza del singolo fa emergere la funzione simbolica; simbolica, non astratta, anzi, concreta, concretissima, in quanto insiste sulla concreta esperienza del soggetto nella sua particolarissima vita. E perché dell’avventura umana della conoscenza Lacan ama il rischio, l’alea. Ama anche il reale, e lo sa leggere come quel testo che si tesse tra la dea Tyche e il demone Automaton. A come i due si intrecciano nell’esistenza umana egli porge ascolto, consapevole com’è che ogni autentica esperienza si conduce tra il Caso e la Ripetizione. Per comprendere non invoca altro bisturi se non un finissimo orecchio. Ma attenzione: comprendere per Lacan non è sviscerare, congetturare. Si tratta, piuttosto, di attendere che una forza nasca in sé e nell’altro per conoscere, una forza che è fatta anche di digiuno. Perché se a volte può apparire che Lacan strafaccia, e al banchetto della conoscenza non faccia mancare nessuna pietanza, anzi si strafoghi di leccornie e prelibatezze, è anche vero che rifiuta il fondamento cannibalico del vocabolario della conoscenza: non afferra, non inghiotte, non assimila, non fagocita. Sospende piuttosto ogni forma di sapere al suo essere, al fondo, un atto di linguaggio; sì, è quella la materia in cui la conoscenza accade, e dunque è lì che bisogna indagare, nei buchi, nei vuoti della lingua. Così ci prepara alla speciale rivelazione che non smette mai di rimemorarci, quasi fosse il nostro attuale, moderno memento mori: e cioè, che il cammino della conoscenza è una strada lastricata di fame e di astinenza, perché siamo fatti così, di buchi. Siamo fatti di niente, dentro siamo vuoti. E per il fatto che parliamo ci riempiamo la bocca spesso di sciocchezze.
Ma se Lacan ha il senso arrischiato dell’esistenza, è forse per questo un avventuriero? Chissà! Confesso che a me non dispiacciono affatto gli avventurieri, se con tale attributo si intende chi si avventura nel rischio della parola, nella vertigine dello scorporamento che in essa avviene per tutti noi, e non teme il sapore di vuoto che in essa si gusta e nessun altro cibo mai potrà togliere. L’analista, con Lacan, si propone come una figura che prende i tratti un po’del sapiente, un po’del trickster. E’sapiente nel senso che ama la conoscenza, la corteggia. E’ colto, infinitamente attratto da chi tra i filosofi accoglie del pensiero le sfide più audaci; che siano Platone, Agostino, Heidegger, Lacan si avventura nelle questioni che essi pongono come fossero le sue questioni. E onora il filosofo, quanto venera lo scrittore. Non diversamente, anche qui, da Freud. E’ certamente vero – altra vexata questio – che Lacan psicoanalista non promette guarigione: in questo seminario lo ripete. Ma è anche vero che rimane consapevole del compito etico che nella scena analitica gioca chi la conduce. E se non promette una guarigione, non perciò si sottrae alla domanda di cura. Ascolta. Non risponde. Freud rispondeva di più, spesso sbagliando, come lui stesso ci racconta. Lacan si tiene più di Freud nel silenzio dell’ignoranza, nel buio della discontinuità, nell’ombra dello scacco, anzi in essi confida come ciò che gli permetterà l’inquietante percezione dell’ignoto. E’ come se, giunto postumo, in una stagione tardiva, Lacan non possa più illudersi, e non possa confidare altro che in una specie di sapienza esperienzale che insegna che la verità si installa proprio al cuore dell’errore, e ciò che distingue il reale in quanto tale è proprio il fatto di non ricollegarsi a niente.