di Piero Bianucci, lastampa.it, 17 ottobre 2006
Sigmund Freud, fondatore della psicoanalisi, morì alle 3 di notte del 23 settembre 1939 nella casa di Londra dove aveva trovato rifugio dal nazismo. Da sedici anni combatteva contro un cancro che gli aveva devastato la mascella, il palato, uno zigomo, l’intero lato destro del volto, l’esistenza. Ma a ucciderlo non fu il cancro. Furono due centigrammi di morfina iniettati dal suo medico curante Max Schur in osservanza di un antico patto tra i due. Una eutanasia. La decisione definitiva Freud l’aveva presa quando si era accorto che il cane a cui tanto era affezionato non entrava più nella sua stanza: lo teneva lontano il fetore dei tessuti in putrefazione. Era stato necessario stendere una zanzariera sul letto per impedire che le mosche si posassero sulla guancia divorata dal male. I terribili particolari di quelle ore estreme sono nell’ultima pagina della biografia di Freud lasciataci da Max Schur, in uscita da Bollati Boringhieri (Freud in vita e in morte. Biografia scritta dal suo medico, edizione italiana ridotta a cura di Armando Guglielmi, 472 pagine, 30 euro).
Un groviglio di reticenze
Nel 1923, quando la malattia si manifestò, Freud non aveva un medico di fiducia. Gli bastavano i consigli di colleghi amici, in particolare un cardiologo, Ludwig Braun, perché nel cuore pensava di avere il suo punto debole. Schur, viennese trentaduenne, buon internista, lo prese in cura nel 1928 grazie alla mediazione della principessa Marie Bonaparte, una sua ex paziente. Freud pose solo una condizione: che gli venisse sempre detta la verità. Troppo tardi. Ormai i guasti erano fatti. Scoperta la lesione cancerosa dovuta al fumo, per qualche mese Freud non disse niente a nessuno. Si fece poi vedere dal dermatologo Maxim Steiner, che riconobbe subito la gravità della lesione e consigliò l’intervento chirurgico ma non ebbe il coraggio – dovremmo dire l’etica professionale – di rivelare all’amico la verità: parlò di una leucoplachia, diagnosi tutto sommato non allarmante. E fu l’inizio di un groviglio di reticenze, uno psicodramma nel quale tutti sapevano e tutti fingevano di non sapere. Temevano, i colleghi, che reagisse alla notizia fatale con il suicidio. Freud fu operato dal chirurgo Markus Hajek, che conosceva solo superficialmente. Hajek eseguì un intervento maldestro e troppo cauto, che poco dopo ne comportò un altro molto più radicale, attuato da Hans Pichler. Non fu sufficiente. Da allora, di recidiva in recidiva, gli interventi furono più di trenta. Solo il 1934 passò senza ricorso al bisturi. Tagli sempre più demolitori e radioterapia non riuscirono a eliminare le cellule maligne. Finché venne una recidiva non operabile perché troppo vicina all’orbita oculare e la sentenza fu scritta. Schur era diventato un amico strettissimo di Freud, aveva seguito una analisi ed era entrato nella Società psicoanalitica di Vienna. Nel 1939 emigrerà negli Stati Uniti, dove contribuirà alla diffusione della scuola freudiana e fino alla morte, avvenuta 1969, lavorerà alla biografia del maestro con scrupolo maniacale, senza trascurare il minimo documento.
Una forma di masochismo
Com’è naturale, la malattia è il filo conduttore del libro di Schur, la malattia spiata da un punto di vista tristemente privilegiato e nei suoi riflessi sul pensiero freudiano. Messo di fronte al cancro, Freud sperimenta su di sé i meccanismi descritti dalla teoria psicoanalitica. Prima reagisce con una rimozione: cerca di non vedere la malattia, la nasconde a sé stesso e agli altri. Seguono il lutto e l’elaborazione del lutto, una forte reazione al male in cui si esprime la pulsione verso Eros, il piacere. Ma anche, specularmente, la pulsione di morte, una forma di masochismo. Freud era qualcosa di più di un fumatore accanito di sigari. Lui che da giovane aveva sperimentato per motivi di studio la cocaina, era, per usare le sue stesse parole, uno «schiavo della nicotina» e lo rimase fino alla morte. Difficile non vedervi un desiderio di autodistruzione.
Sofferenze laceranti
Nel pensiero di Freud la pulsione di morte appare con il saggio del 1920 Al di là del principio di piacere, ma è ancora una ipotesi. Due anni dopo in L’Io e l’Es diventa un polo dialettico della teoria delle pulsioni, con il ruolo di «mantenere quieto Eros, il seminatore di discordia». Della propria pulsione di morte dirà: «Si tratta di un processo naturale, quasi un cominciare a diventare inorganico. Credo che si chiami serenità della vecchiaia. Dipenderà senz’altro da una svolta decisiva nel rapporto delle due pulsioni che ho ipotizzato». Freud affronta stoicamente sofferenze laceranti. È la solitudine, non il dolore a piegarlo. L’isolamento di chi ormai fatica a parlare e a leggere, di chi si accorge di allontanare con il proprio fetore persino il cane, quel Lun che in un breve filmato del 1937 Sigmund accarezza teneramente. Aveva sempre amato i cani. Mitica è la cagnetta Jofi regalatagli da Marie Bonaparte: «Quando Jofi si alzava e sbadigliava – testimonia il figlio Martin – era segno che l’ora di analisi era conclusa. Non si faceva mai sorprendere in ritardo alla fine della seduta, benché mio padre sostenesse che era capace di un errore di forse un minuto, a spese del paziente».
«Lo dica ad Anna»
Che Freud abbia scelto e ottenuto l’eutanasia era noto. Già nel primo colloquio con Schur si era fatto promettere «un aiuto» quando non ce l’avesse più fatta. Da questo punto di vista il libro di Schur non porta novità: la richiesta di informare della decisione la figlia Anna è ricordata anche nella monumentale biografia di Ernest Jones. La dose di morfina è all’incirca la stessa. Cambia solo l’ora della fine: mezzanotte secondo Jones, tre ore dopo secondo Schur. Si precisano però i particolari del dialogo estremo: «”Caro Schur, lei si ricorda certo del nostro primo colloquio. Allora mi promise che non mi sarebbe venuto meno quando fosse stato il momento. Ormai è solo tormento e non ha più senso”. Gli feci cenno che non avevo dimenticato la promessa. Egli mi guardò sollevato, mi trattenne la mano per un istante e disse: “La ringrazio”; poi, dopo un momento di esitazione aggiunse: “Lo dica ad Anna”. Tutto questo fu detto senza traccia di commozione o di autocommiserazione e con piena coscienza della realtà. Come Freud aveva chiesto, informai Anna di quanto mi aveva detto. Allorché ricadde negli spasimi dell’agonia gli iniettai due centigrammi di morfina. Ne fu immediatamente sollevato e cadde in un sonno tranquillo. L’espressione di dolore e di sofferenza era scomparsa. Ripetei l’iniezione dopo circa 12 ore. Freud era chiaramente prossimo alla fine delle sue risorse: cadde in coma e non si svegliò più.» Aveva 83 anni. La salma fu cremata la mattina del 26 settembre al Golder’s Green. Nell’orazione funebre Jones disse: «Con la morte non ha perso nulla, quindi non possiamo proprio compiangerlo. Che sarà però di noi? Un mondo senza Freud!».
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