All’indomani dei settant’anni dalla morte del fondatore della psicoanalisi, l’editoria si affanna a sommare titoli di Freud, variamente reinterpetati, ai propri cataloghi
di Emanuele Trevi, il manifesto, 20 maggio 2010
«Freud da sogno a prezzi disinibiti», recita la sconcertante fascetta che accompagna la riproposta – da parte di Bollati Boringhieri, in una nuova e spartana veste grafica – di una manciata di testi fondamentali, dall’Interpretazione dei sogni alla Psicopatologia della vita quotidiana. Basta citare il marchio editoriale per capire che si tratta, a parte le questioni di pubblicità e di grafica, del miglior Freud disponibile in italiano. C’è solo da sperare che questo «Freud da sogno a prezzi disinibiti» non scalzi dagli scaffali delle librerie i volumi in brossura dell’edizione economica delle Opere, in rigoroso ordine cronologico, diretta da Cesare Musatti, completata dagli irrinunciabili indici.
L’epistolario con Lou Salomé – L’impresa era iniziata nel lontano 1959, quando Paolo Boringhieri (anche traduttore di Freud con lo pseudonimo di Sagittario) firmò un primo accordo con Ernst Freud per la pubblicazione delle opere complete del padre, che avrebbe sfruttato al meglio gli apparati scientifici della cosiddetta Standard Edition. Una vera gloria della storia dell’editoria italiana, paragonabile, per importanza intrinseca ed effetti a distanza anche imprevedibili, al Nietzsche di Adelphi curato da Giorgio Colli e Mazzino Montinari. Con l’introduzione di quest’ultimo, Bollati Boringhieri ha anche ristampato nell’«Universale» Eros e conoscenza, la raccolta delle lettere scambiate tra Freud e Lou Andreas Salomé dal 1912 al 1936 (pp.253, euro 15,00).
Il documento è eccezionale non solo dal punto di vista scientifico: l’epistolario si presenta come la cronaca di un insegnamento protratto nel tempo e destinato a un’allieva di straordinaria personalità, anche quando è più sensibile al carisma del maestro. E se è vero che certi legami mettono a nudo tonalità affettive e sentimenti fino a quel momento poco espliciti, si può dire che conosceremmo meno Freud se non ci fossero rimaste queste lettere a Lou, con la loro commovente confidenzialità.
Non è solo Bollati Boringhieri a mandare in libreria, di questi tempi, riproposte dei titoli di Freud, con un livello molto vario delle traduzioni e degli apparati. Girata nel 2009 la boa dei settant’anni dalla morte, con il conseguente scadere dei diritti d’autore, l’opera di Freud ha conseguito pienamente lo statuto del classico: bella parola, ma nell’attuale collasso dei valori e dei saperi umanistici, «classico» è anche quell’autore che può essere ristampato con introduzioni insulse e pessime traduzioni, millantando inediti e producendo inutili doppioni con furbe variazioni dei titoli. Nonostante questi rischi, la fine del copyright (che dovrebbe essere più rapida rispetto agli antidiluviani settant’anni) permette operazioni di grande qualità, o perlomeno di onesta e utile divulgazione. All’ultima categoria appartengono i titoli di Freud apparsi ultimamente nella Biblioteca Universale Rizzoli. Prendiamo, tra gli altri, quel testo straordinariamente inventivo, non solo dal punto di vista delle idee ma anche della forma saggistica, che è la Psicopatologia della vita quotidiana (pp. 414, euro 11,00). Curata da Nelly Cappelli e munita di un’introduzione di Mario Lavagetto e di un ricco saggio di Riccardo Steiner, è un’edizione esemplare della filosofia che dovrebbe animare le collane economiche, e sicuramente destinata a lunga vita. Analoghe ambizioni riflette la nuova traduzione del Disagio nella civiltà (al posto del canonico «Disagio della civiltà») curata da Stefano Mistura per la «Piccola Biblioteca Einaudi» (pp.93, euro 14,00). La lunga e appassionata introduzione di Mistura ci permette di collocare le prove saggistiche del vecchio Freud (non solo il Disagio, ma anche L’avvenire di un’illusione) nel contesto del movimento psicoanalitico, all’interno del quale anche gli allievi più fedeli come Jones stentano a comprendere (o trovano inutile) il tentativo del maestro di allargare le prospettive, nel solco del Nietzsche della Genealogia della morale, sostituendo alla diagnosi sul singolo quella sull’intera umanità. Pubblicato su rivista tra il 1929 e il 1930, e come incuneato tra il crollo di Wall Street e l’ascesa di Hitler, il Disagio è uno di quei libri che, seppure in maniera incerta e scorretta, si «conoscono» in parte anche senza averli mai letti, grazie all’abbondanza delle citazioni e dei concetti che (complice l’eloquenza stessa del titolo) ne hanno divulgato le idee più penetranti e i concetti più memorabili. Tutti sappiamo, per esempio, che la materia prima dell’Unbehagen, cioè del famoso «disagio» risiede nel senso di colpa, e nel Super Io che si insedia nel soggetto come una testa di ponte nemica all’interno di una cittadella assediata. Freud stesso, d’altra parte, ha la sensazione di aver scritto (in uno stato di salute che peggiora sempre, e lontano dalla sua biblioteca) su argomenti più o meno risaputi. In realtà, risalire dalla citazione al testo integrale significa riscoprire, con emozione, una memorabile retorica saggistica, erede di una grande tradizione della prosa tedesca, e nello stesso tempo consapevole del progressivo smussarsi del prestigio del pensiero e dell’arte in società sotterraneamente straziate da opposte pulsioni, ma cementate dal senso di colpa («ciò che prese avvio con il padre», sintetizza Freud con formula efficace e terrificante, «trova compimento nella massa»). Saggi come il Disagio rientrano sicuramente nella categoria, pur ambigua e controversa, dei testamenti. Al capo opposto di una biografia intellettuale che sembra circondata da un’aura di fatalità eroica, simile a quella di un vecchio dramma romantico, ci imbattiamo nel problema, ben più spinoso e controverso, delle origini. Problema reso ancora più arduo dalla constatazione che non si tratta solo, per la psicoanalisi, della fioritura e del successivo sviluppo di un sistema, o di una rete di concetti.
Una data di nascita possibile – A questa dimensione, comune a ogni impresa filosofica, si intreccia indissolubilmente, nel caso di Freud e dei suoi primi allievi, quella – più empirica ma non meno rilevante – del costituirsi di una tecnica, la cui finalità è concretamente terapeutica. Nel fatto che poi questa tecnica (principalmente attraverso il prodigioso meccanismo narrativo e cognitivo del caso clinico) cooperi senza interruzione anche all’accrescimento delle conoscenze, consiste esattamente quel circolo virtuoso che, ben oltre lo stesso Freud, distingue la psicoanalisi da ogni altro sapere umano.
Ma è possibile stilare una specie di atto di nascita credibile, per l’indagine sull’inconscio e per la psicoanalisi? Il 1899, data dell’Interpretazione dei sogni, appare subito un punto di riferimento troppo tardivo: la nascita della teoria freudiana sarebbe paragonabile a quella proverbiale di Minerva dalla testa di Giove, già ornata di tutti i suoi attributi. La stessa Interpretazione, d’altra parte, ci conduce più indietro, almeno alla notte tra il 23 e il 24 luglio del 1895, data di uno dei più celebri sogni della storia umana, quel «sogno dell’iniezione di Irma» in cui Freud si sdoppia (come tante volte in farà in seguito) in soggetto e oggetto di riflessione, in quanto interprete di un sogno fatto da lui stesso.
Il 1895 è anche l’anno degli Studi sull’isteria firmati assieme a Josef Breuer, dove non solo è perfettamente rodata la tecnica d’indagine del caso clinico, in pagine degne di un’antologia, ma Freud ci illumina sulle intuizioni fondamentali che lo porteranno a codificare il lavoro coi pazienti rinunciando alla ipnosi e basandosi, da allora, sulle libere associazioni di pensiero. Nel 1896, ad ogni modo, il termine psicoanalisi debutta ufficialmente nelle Nuove osservazioni sulle neuropsicosi da difesa. Sono fatti risaputi, è vero, ma tutto il dossier adesso è stato felicemente riaperto da Francesco Napolitano, in un lavoro notevolissimo sia per la cura filologica che per la passione critica e la ricchezza delle informazioni. Si tratta dell’edizione di uno scritto di Freud del 1891, L’interpretazione delle afasie, relegato fin dai tempi della Standard Edition a una preistoria di studi medici, al quale Napolitano restituisce la debita importanza, con un fitto apparato di note (siano lodati gli editori che le mettono in fondo alla pagina !) e un lungo e densissimo saggio critico (Quodlibet, pp.219, euro 22,00). Una malizia si annida nel titolo scelto per questa edizione italiana del libro del trentacinquenne Freud: più che con «interpretazione», infatti, l’Auffassung dell’originale andrebbe tradotto con «nozione», «concetto». Ma sono molti gli argomenti con cui il curatore può giustificare l’arbitrio, scavando un sentiero tra questo lavoro molto tecnico sui disturbi del linguaggio e il capolavoro del 1899.
Affrontando il problema dell’afasia, o delle afasie com’è più sensato definire questa varietà di disturbi, il giovane Freud è ben consapevole di addentrarsi nel più scottante dei temi neurologici del suo tempo, perlatro dotato di una quantità di implicazioni filosofiche e teologiche. Il disturbo di parola, con tutti suoi fenomeni inquadrabili nelle due principali categorie del disturbo di comprendere e di quello di articolare, si era rivelato, lungo tutta l’età romantica e poi in quella positivista, il filo di Arianna per addentrarsi nel labirinti di un organo, il cervello, e di un concetto fondamentale, quello di coscienza – volentieri sovrapponendo e confondendo i due piani di realtà a seconda del temperamento e delle convinzioni dei ricercatori.
Su tutta l’ingente letteratura medica presa in esame da Freud, giganteggia l’ombra di un grande, Pierre-Paul Broca, che nel 1861 pubblicò sul bollettino della «Société anatomique de Paris» una scoperta talmente epocale che ancora si ricorda il nome e il soprannome del paziente che la rese possibile. Era un certo Leborgne, morto nell’aprile di quell’anno e conosciuto all’ospedale di Bicêtre con il nomignolo di Tan Tan. Così rispondeva Leborgne, con questa sillaba ripetuta due volte, a qualunque domanda gli si facesse. Broca non fu il primo a sospettare che una determinata area del cervello fosse la sede dei processi di linguaggio. Ma effettuando l’autopsia di Leborgne, si accorse che il cervello del paziente presentava una lesione alla base della terza circonvoluzione sinistra. Esiste dunque, a dispetto della sua forma esteriore, un’asimmetria fondamentale nelle funzioni del cervello. Tanto è vero, che la connessione tra un punto alla sinistra dell’organo e l’afasia (Broca la chiama afemia) vale solo per i destrimani, mentre nei mancini il centro del linguaggio si troverebbe sul lato opposto.
Ipotesi sul linguaggio – L’articolo di Broca è di quelli destinati a smuovere le acque, costringendo gli studi successivi a ripercorrerne le tracce, sia che si cerchi di smentirne la tesi fondamentale, sia che invece ci si impegni a confermarla. Ma l’occasione è di importanza capitale: è dunque possibile localizzare in un punto preciso del cervello, oltre al linguaggio, tutte le altre funzioni e prerogative umane? I libri e le riviste cominciano a riempirsi di mappe e diagrammi, e i ricercatori si sentono un po’ come geografi impegnati a tracciare i confini di una terra sconosciuta, con un entusiasmo che ha molte analogie con quello dei neurobiologi di oggi, i quali hanno spostato il loro terreno di caccia dal cervello ai segreti del genoma. Questi diagrammi delle funzioni linguistiche esattamente localizzate nel cervello umano avevano raggiunto, quando Freud si accinse a mettere ordine tra le varie teorie, un affascinante grado di complessità, capace di formulare ipotesi totali sul linguaggio e sulle sue patologie. È come un sistema di canali invisibili, un prodigioso meccanismo di irrigazione reciproca che unisce gli oggetti percepiti e le parole ascoltate, le immagini interiori del mondo e l’apparato fonatorio.
Ogni incidente che interrompe la circolazione corrisponde a una incapacità di articolare, di comprendere, di accedere alla pienezza dello scambio linguistico. È da questi presupposti che nel 1891 ha inizio l’esplorazione di Freud, che non rinuncia del tutto agli insegnamenti derivati dalle tante cartografie del cervello dovute ai suoi predecessori, ma fa affiorare decisamente nell’indagine quel duplice concetto di rappresentazione (di parola e di oggetto) destinato a così considerevoli sviluppi nel suo pensiero successivo. Una quindicina d’anni dopo lo studio sulle afasie, nell’Inconscio, potrà distinguere con sicurezza una «parola senza oggetto», tipica della psicosi, da un «oggetto senza parola», che caratterizza invece la nevrosi. Ma le prime pietre della teoria vengono posate nel 1891 proprio individuando la connessione tra le rappresentazioni mentali degli oggetti e le immagini sonore ricavate dall’ascolto delle parole. È a partire dalla delicatezza di questa connessione che dobbiamo pensare tutti i disturbi di linguaggio, dai più patologici ai più lievi incidenti che ci offre l’esperienza quotidiana. Sempre ricordandoci di distinguere l’organo (il cervello) dalla psiche e dal suo lavoro, conscio e inconscio. E se una secolare tradizione di metafore assimila quest’ultima a un dispositivo ottico, questo non è sbagliato, a patto però di correggere e complicare l’immagine, perché l’apparato psichico è un occhio, certo, ma anche un orecchio. Sotto le complesse circonvoluzioni del ragionamento scientifico, il saggio sulle afasie del 1891 nasconde una nozione dell’uomo, animale audiovisivo impegnato a elaborare e connettere le sue rappresentazioni, che oltrepassa di gran lunga tutto quanto ci si poteva aspettare dall’intelligenza e dalla cultura di un medico alle prime armi.
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