di Giuseppe De Rita, ilmanifesto.it, 8 dicembre 2010
Nei giorni scorsi su questo giornale Ida Dominijanni e Massimo Recalcati hanno sottolineato, scrivendo dell’ultimo Rapporto Censis, quanto quest’ultimo debba a un abbondante utilizzo di concetti e metafore psicoanalitiche; e quanto in particolare esso debba al volume L’uomo senza inconscio dello stesso Recalcati.
In effetti, e mi fa piacere dirlo in pubblico, il mio cervello in questo 2010 è stato molto affascinato dal libro citato, quasi mi ci sono rivoltato più volte per la inconscia sensazione che in quelle tesi stava la giusta provocazione a capire le cose, mio annuale compito professionale e mia annuale piccola ossessione. Lo sanno i miei colleghi qui al Censis e i tanti amici che ho spesso intrattenuto sul libro.
Mi sono spesso domandato in questi mesi il perché di questa fascinazione. Ho sempre usato negli anni riferimenti psicoanalitici, avendo avuto abbondanti letture di settore (due anni fa sfruttai molto Melanie Klein in materia di “desublimazioni”); ma quest’anno la tentazione è stata di molto superiore. Certo per l’entusiasmo per i ragionamenti e lo stile di scrittura di Recalcati, ma anche perché mi sono progressivamente reso conto che la razionalità, spesso presunta, delle interpretazioni economiche e sociologiche non basta più a sostenere un’analisi in profondità del sistema sociale.
Anche qui mi soccorre l’articolo di Recalcati: il riferimento alle categorie della psicoanalisi viene dal fatto che «è sempre più evidente che la dimensione del discorso argomentativo e del conflitto delle interpretazioni lascia il posto a moti pulsionali acefali, refrattari alla dialettica politica e vincolati a quella fascinazione macabra della pulsione di morte che nel nostro tempo sembra non trovare più argini simbolici sufficienti».
Ancora una volta, ben detto; ma in questo caso (contrariamente a quanto avvenuto per le altre ben dette intuizioni di Recalcati sulle pulsioni sregolate, sull’eclissi del desiderio, sull’evaporazione del padre e della legge, ecc.) io nutro qualche differenza d’opinione.
Forse perché sono di natura un ottimista, mi muovo male quando mi trovo di fronte alla «fascinazione macabra della pulsione di morte». La riflessione che Recalcati fa nella seconda parte del suo articolo riguardo alla «perversione berlusconiana» è molto coinvolgente, specialmente per padri evaporati che si danno a godere senza limiti; ma è troppo acutamente focalizzata su Berlusconi e troppo personalizzata. È troppo focalizzata su Berlusconi, con una simpatica perfidia, se solo si rileggono le cinque righe sul suo corpo protesico e bionico; ma è specialmente troppo personalizzata, messa in asse con singoli soggetti (De Gasperi, Berlinguer o Berlusconi) senza possibilità di ricondurla a dimensioni collettive, sociali.
E qui mi piacerebbe una volta avere un confronto fra Recalcati e me. Le sue intuizioni sono fulminanti sul piano “micro” della personalità dei singoli, e a lui ciò basta; a me fa fatica trasportare quelle intuizioni sul piano “macro” dei fenomeni e processi sociali, e alla fine le trascino citazione su citazione, più che comporle in una più complessa dimensione argomentativa. E quando nel mio ottimismo mi oriento al «tornare a desiderare» non trovo la personalità soggettivamente corrispondente a quel richiamo (come c’è invece corrispondenza “clinica” fra Berlusconi e l’angoscia della morte).
L’interpretazione sociale, quella che mi compete, resta senza icone di riferimento, con una conseguente relativa finitezza, come del resto è prigioniera della finitezza anche la riflessione psicoanalitica centrata su singole evidenze cliniche. E allora, ferma restando la nostra comune fede nella finitezza, possiamo ragionare un giorno su come renderla meno zoppicante.
Sarei grato al manifesto se desse spazio a un confronto in merito, come sono grato a Recalcati dell’ardore mentale provocatomi per qualche mese dalla lettura del suo libro.
Tratto da:
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