UNO SCRITTORE NOTTURNO E POETICO DI NOME FREUD –

di Matteo Nucci, il Venerdì, la Repubblica, 25 novembre 2011

Sigmund Freud fu uno scrittore straordinario. Chiunque legga oggi i suoi scritti, anche quelli in forma meno narrativa, rimane sorpreso dagli improvvisi guizzi, le ambiguità, le calcolate omissioni. Talento, eleganza di stile, consuetudine con la lettura non vennero mai meno, nonostante in parte, durante gli anni più prolifici, lo scienziato avesse fatto di tutto per combattere la letterarietà di quanto scriveva. Le cause di uno sforzo simile affondavano le proprie radici nel giudizio liquidatorio di chi, di fronte agli immensi spazi di novità aperti dalla psicoanalisi, si chiuse a difesa della scienza e condannò Freud come il semplice autore di «una favola scientifica».

Tuttavia i tentativi di trovare una forma espressiva consona e non relegabile tra le favole della letteratura spinsero Freud su una strada che lo avrebbe portato a produrre opere di una modernità disarmante, ben al di là delle forme classiche dettate dai tradizionali canoni aristotelici. È quanto sostiene Mario Lavagetto nel suo importante studio introduttivo a una nuova edizione dei famosi Casi clinici, stavolta raccolti assieme a tre altri scritti, decisivi per calibrare un giudizio sul Freud scrittore. Il progetto di Lavagetto, infatti, punta a sottolineare un aspetto che, forse soprattutto per volontà dell’autore stesso, è stato a lungo sottovalutato. Non a caso, l’edizione s’intitola stavolta Racconti analitici (Einaudi, pp. LXVI e 809, euro 85, traduzione di Giovanna Agabio, note e apparati di Anna Buia) e ci accompagna nei territori più oscuri del nostro essere con una sapienza scrittoria che lascia davvero a bocca aperta. «E dire che nella storia della cultura occidentale, Freud rischia di diventare, per usare un’espressione di Marx, “un cane morto”!» sbuffa Massimo Recalcati, psicoanalista lacaniano e docente all’Università di Pavia.

«Oggi assistiamo al ritorno di una cultura iperpositivista, scientista, fondata sull’impero del numero, della quantità. Freud appare come un uomo dell’Ottocento, un pensatore che ha fatto il suo tempo, buono solo per essere ammirato in qualche museo delle cere. E invece basterebbe anche solo ripensare alla sua grandezza di scrittore. In Freud convivono due anime. Da una parte c’è lo scienziato, teorico dell’inconscio, figlio della Vienna positivista, animato dall’esigenza di costruire una teoria riconosciuta dal mondo accademico, dall’altra parte c’è l’anima goethiana, romantica, l’elemento notturno, poetico, onirico del suo lavoro. Freud scriveva di notte perché come tutti gli analisti, di giorno vedeva i suoi pazienti e credo che questo influenzasse il modo in cui scriveva. Da una parte, dunque, l’ideale della psicoanalisi come scienza dell’inconscio, dall’altra l’amore per i poeti, per i Presocratici, Leonardo da Vinci, Shakespeare, Dostoevskji. Ma proprio in questa doppia anima consiste la sua potenza».

Potenza che sgorga da un’unità che a livello narrativo è molto sofferta. È l’esito di un lavorio costante, una sfida che viaggia sulla necessità di raccontare alcuni casi esemplari di analisi, senza cadere nella noia, dunque evitando una sorta di cronistoria. Al tempo stesso però evitando anche i tranelli della «bella esposizione» che finirebbe per ridurre o vanificare la complessità del reale. «Proprio così. Quel che Freud scrive» spiega Recalcati «punta a raggiungere una forma universale, valida per tutti, come è tipico del sapere scientifico. Però il soggetto sul quale egli lavora è un soggetto irriducibile al numero e alla quantificazione oggettiva. Ciò che interessa Freud è il particolare più bizzarro e scabroso, irriducibile all’universale, è l’inconscio che affonda le sue radici nella vita, nella storia, nella biografia. È questo che rende affascinante la sua scrittura; come l’universale entri in gioco attraverso un particolare caotico e bizzarro com’è quello di ogni biografia».

A livello di scrittura, tutto ciò, stando almeno alla lettura che ne offre Lavagetto, spinge Freud a ridiscutere i rapporti tra vero e verosimile, finendo per andare molto più in là dell’ideale che Freud stesso riteneva canonico, ossia l’ideale classico d’impronta aristotelica. È per questo che Freud non attribuiva una piena letterarietà ai suoi scritti ed è per questo che invece quegli scritti seducono tanto noi, che i canoni classici ormai li abbiamo quasi dimenticati. «Credo che si tratti in fondo» commenta Recalcati «della nota polemica con i surrealisti. Breton e i suoi compagni avevano identificato Freud con il loro padre spirituale. Freud si era sottratto: “Non sono vostro padre” aveva risposto. Ma, alla luce di quello che leggiamo, avevano ragione loro. Freud coltiva l’ideale aristotelico dell’opera e del soggetto come unità, ma quel che emerge dalla sua scrittura è un’opera divisa e un soggetto frammentato, onirico, surrealista».

Dunque, un Freud più scrittore che medico, più surrealista che scienziato. La morte della scienza? La fine della psicoanalisi? «Per nulla» risponde Recalcati «pensiamo all’importanza dell’anamnesi nella nostra pratica. Si tratta di un motivo che ispira anche la clinica psichiatrica. In primo piano è la storia del paziente, le sue pieghe più intime. Oggi molte psicoterapie sembrano fare a meno dell’anamnesi, sembra cancellino l’importanza della storia singolare di una vita. Ma è proprio attraverso i cosiddetti casi clinici che la psicoanalisi si rivela quello che è, e cioè una scienza storica che non rinuncia affatto alla categoria di causalità. Solo che questa causalità non è più oggettiva, non è più organica, ma ha a che fare con il senso, con la verità, con la mediazione del soggetto. Dunque, in fondo, con il linguaggio».

http://spogli.blogspot.it/2011/11/il-corriere-della-sera-25.html

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