di Massimo Recalcati, repubblica.it, 23 aprile 2012
Leggendo il dibattito che si è sviluppato sulle pagine di Repubblica intorno al cosiddetto New-Realism (nuovo realismo) e gli ultimi libri di Gianni Vattimo (Della Realtà. Fini della filosofia, Garzanti) e Maurizio Ferraris (Manifesto del nuovo realismo, Laterza), mi sono chiesto cosa la psicoanalisi avrebbe da dire. Indubbiamente una certa teoria e, soprattutto, una certa pratica della psicoanalisi ha autorizzato una sorta di delirio dell’interpretazione.
Un paziente decide di tagliarsi la barba; un analista – anche famoso – può precipitarsi ad interpretare questa decisione come un comportamento anale-aggressivo segnale di un transfert negativo verso l’analista medesimo. Melanie Klein – che non aveva sospeso il suo lavoro di analista durante la Seconda guerra mondiale – poteva interpretare come difese il terrore di un bimbo che in seduta cercava rifugio perché sentiva il rumore dei bombardieri tedeschi sul cielo di Londra. Un analista nostrano spiega che se un paziente racconta in seduta di essere stato alle prese con un ingorgo di mail, questo significherebbe una sua difficoltà a parlare di sé in seduta, un suo sentirsi ostruito nella parola.
La versione della psicoanalisi come delirio ermeneutico ha contribuito a dissolvere la realtà effettuale in un insieme di proiezioni fantasmatiche del soggetto; il mondo interno ha aspirato integralmente il mondo esterno, la realtà psichica è finita per coincidere con la realtà tout court. Freud diceva che lo psicoanalista rischiava nell’arte dell’interpretazione di avallare una versione paradossale del gioco della monetina alzata in aria: se è testa vinco io, se è croce perdi tu. Insomma la psicoanalisi – soprattutto nelle sue versioni angolofone – è stata una declinazione ingenua e estremistica dell’ermeneutica che ha dissolto quella che Ferraris definisce – con una espressione efficace – l’inemendabilità del reale e che ha ridotto l’atto psicoanalitico dell’interpretazione alla pura e semplice illazione.
Esiste però un’altra versione della psicoanalisi che la vuole non come una teoria dell’interpretazione tra le altre, ma come una teoria e una pratica dei limiti dell’interpretazione. Tutto l’insegnamento di Lacan va chiaramente in questa direzione. Si prenda per esempio la sua distinzione tra realtà e reale che il dibattito tra nuovi realisti e ermeneuti sembra trascurare, utilizzando i due termini come meri sinonimi. Provo invece a definire il più semplicemente possibile questa differenza. La realtà è la realtà effettuale sulla cui esistenza nessuno – nemmeno l’ermeneuta nichilista più efferato – come ci ricorda nella sua ultima e notevole opera Gianni Vattimo – può dubitare. La realtà di una ciabatta nella stanza o della pioggia sono fatti in sé, esterni, non sono né nella mia coscienza, né nel mio inconscio. La realtà ha le caratteristiche della permanenza indipendente dalla mia volontà.
Questa realtà coinvolge evidentemente anche la mia persona. Guardandomi allo specchio non mi stupisco di essere io e che questo io che sono non coincida affatto con l’immagine riflessa, sebbene io mi riconosca in quella immagine. Allo stesso modo se guardo una ciabatta abbandonata in una stanza non dubito che sia una ciabatta e che, come tale, sia destinata a certi usi e non ad altri. Ma la realtà, proprio per questi attributi di permanenza e di indipendenza dalla mia volontà – insinuerebbe Lacan -, è un sonno. Nel senso che nella nostra frequentazione abitudinaria della realtà – la mia immagine allo specchio, la ciabatta nella stanza – tendiamo ad addormentarci, cioè presupponiamo che la realtà risponda ad un certo ordine naturalmente evidente. Io sono io, la ciabatta è la ciabatta. Se cammino per strada, non mi interrogo sul fatto che gli edifici che ho attorno possano crollare o non esistere. Attribuisco loro una certa fiducia, come quella che Hume attribuiva alla probabilità che il sole risorgerà anche domani. In questo senso la nostra vita è fatta dalla routine della realtà.
E il reale? Quando incontriamo il reale? Per Freud negli incubi. Ovvero in qualcosa che si sveglia e ci impedisce di continuare a dormire (aggiunge: perché siamo arrivati troppo vicini alla verità del nostro essere più pulsionale). L’incontro con il reale è sempre l’incontro con un limite che ci scuote, con qualcosa che ci impedisce di continuare a dormire. L’apparizione di un nodulo che minaccia una malattia mortale, la perdita di un lavoro che mette a repentaglio la mia vita e quella della mia famiglia, l’insistenza sorda di un comportamento sintomatico che mi danneggia e che nessuna interpretazione riesce a far regredire; ma anche un nuovo amore, la nascita di un figlio, un’esperienza mistica, l’incontro con un opera d’arte, un’invenzione scientifica, una conquista collettiva. Tutto ciò che risveglia dal sonno della realtà è reale, compreso l’incubo di cui parla Freud. Si tratta di una forma radicale dell’inemendabile. Non posso sottrarmi alla morte, ma nemmeno agli effetti che su di me provoca la lettura perturbante di un libro o la visione di un film o di un quadro. Il reale è ciò da cui non si può fuggire.
In questo senso per Lacan il reale è associato ad un trauma che introduce nella nostra vita una discontinuità che spezza il sonno routinario della normalità della realtà. Sono davvero quell’io che vedo riflesso allo specchio (bisognerebbe, per esempio, chiedercelo quando siamo attraversati dall’angoscia)? La ciabatta è davvero solo una ciabatta? (bisognerebbe chiederlo ad un feticista del piede…)? Il reale, se dovessimo dare una definizione secca, non coincide mai con la realtà ma è ciò che la scompagina. Umberto Eco definiva “realismo negativo” quel realismo che introduce la realtà a partire dalla sua resistenza irriducibile all’interpretazione. È, per certi versi, la stessa definizione che ne dava Lacan: il reale è ciò che resiste al potere dell’interpretazione.
Con una aggiunta decisiva e una distinzione: il reale non coincide con la realtà poiché la realtà tende ad essere il velo che ricopre l’asperità scabrosa – “inemendabile” – del reale. Non perché il reale sia un in-sé noumenico che la realtà apparente avvolgerebbe – il che finirebbe fatalmente per riprodurre un vecchio schema metafisico – ma perché la realtà si costituisce socialmente a partire dalla necessità di neutralizzare proprio l’asperità scabrosa del reale. La psicoanalisi segnala la tendenza degli esseri umani a cercare rifugio nel sonno realtà per neutralizzare il trauma del reale. La realtà è l’analgesico del reale. È uno schermo che serve a proteggere la vita: io sono io, la ciabatta è la ciabatta. Dopo l’11 settembre qualcuno aveva scritto: “adesso che siamo stati costretti a risvegliarci, tornate a farci dormire il prima possibile”. Ridateci, insomma, il sonno della realtà.