Studiosi, politici, guru scanzonati: tutti a chiacchierare con il Foglio per capire quanto siano profonde, e che cosa implichino, le radici culturali della Grande Crisi da Debito
di Ernesto Galli della Loggia, Alberto Mingardi, Paolo Cirino Pomicino, Umberto Silva, Giuliano Ferrara, Marco Valerio Lo Prete, ilfoglio.it, 3 agosto 2012
Lasciamo per un attimo da parte lo “spread” tra titoli di stato italiani e tedeschi, proviamo a dimenticare per il momento “i fondamentali” macroeconomici dei paesi dell’Eurozona. Sono alcune delle premesse del forum che ospitiamo in queste pagine e che si è svolto nella redazione del Foglio con la partecipazione di Ernesto Galli della Loggia (storico ed editorialista del Corriere della Sera), Alberto Mingardi (direttore generale dell’Istituto Bruno Leoni), Paolo Cirino Pomicino (già ministro del Bilancio) e Umberto Silva (psicanalista e collaboratore del Foglio); per il Foglio, c’erano il direttore Giuliano Ferrara e Marco Valerio Lo Prete. Perché forse, per capire l’attuale crisi dell’Eurozona, è sufficiente ricordare che in tedesco il termine utilizzato per “debito” (Schuld) è lo stesso utilizzato per “colpa” (Schuld), e che paesi come la Spagna e l’Italia – per fare un esempio – sono definiti “Defizit-Sunder”, “peccatori del deficit”. Un po’ di filologia, insomma, e si capisce perché Berlino faccia fatica a concepire l’idea di mutualizzare debiti (e rischi) della moneta unica. Meno noto, però, è che l’equazione “debito uguale peccato” ha radici antiche che affondano nelle Sacre scritture del mondo giudaico-cristiano. E’ questa, perlomeno, la tesi di Gary A. Anderson, docente di Teologia cattolica all’Università di Notre Dame (Stati Uniti), autore del libro appena tradotto e pubblica in italiano da Liberlibri: “Il peccato. La sua storia nel mondo giudaico-cristiano”. La morale è dunque tutta dalla parte dei creditori e dei rigoristi? Nient’affatto, almeno a leggere Finance and the Good Society (Princeton University Press), l’ultimo libro dell’economista americano Robert Shiller. Dalla crisi non si esce rinunciando agli strumenti classici della finanza (indebitamento incluso), ma con più finanza – sostiene l’autore – non foss’altro perché “il termine ‘finanza’ deriva dalla parola che in latino classico indicava il ‘fine’, l’‘obiettivo’. La finanza, in senso lato, è la scienza architettonica che ci consente di costruire quegli strumenti economici necessari a raggiungere degli obiettivi”. Scommettere sulle nostre capacità creative, sull’arricchimento, in definitiva sul futuro, sarebbe molto più difficile senza finanza e senza debito.
Il Foglio. Cominciamo sul generico, perché il generico, o meglio il generale, è padre della riflessione. Abbiamo ritirato fuori più volte sul nostro giornale il fatto che debito e colpa in tedesco sono la stessa parola, Schuld. Poi c’è anche questo libro di Gary A. Anderson sulla storia del peccato nel mondo cristiano: nella lingua aramaica, osserva questo teologo, la parola che indica il debito, hoba, coincide con il termine con il quale si indica il peccato. Il punto è questo: di economia si può parlare cifre alla mano, algoritmi alla mano, macroanalisi alla mano, oppure in termini di salute delle classi dirigenti che manovrano i bilanci pubblici oppure di capacità del settore privato, si può parlare con tante coordinate diverse. Però il punto fondamentale, da cui vogliamo partire, è questo: quando Alberto Alesina e Francesco Giavazzi, che sono molto bravi come editorialisti economici, analizzano i temi dell’economia finanziaria sono convincenti; quando gli si chiede la parte storico-politica (come è fatta l’Europa, come sono fatti i tedeschi, come sono fatti i greci, oppure il tema posto già da Ernesto Galli della Loggia, ovvero come è nata la democrazia italiana e come si è consolidata, quali sono le antiche origini dei concetti di “assistenza”, “padrinaggio”), lì l’economista harvardiano tende a scantonare. Vorremmo capire insomma anche la dimensione culturale della crisi economico-finanziaria, facendo il punto su questo dato e sperando che sia vero quello che dice il presidente del Consiglio, Mario Monti, e cioè che si comincia a vedere una luce in fondo al tunnel.
Paolo Cirino Pomicino. Professore, io ho fatto le scuole serali, quindi tocca a lei…
Ernesto Galli della Loggia. Il tema è immenso, la prima cosa che mi viene da dire è che da almeno dieci anni stiamo attraversando – è questo un po’ il senso della globalizzazione – un grande ridisegno delle forze economiche mondiali. Intorno al tavolo dove poggiava la torta delle risorse mondiali prima c’erano l’Europa, la Russia, gli Stati Uniti e il Giappone. Improvvisamente attorno a questo tavolo si sono sedute 3-4 miliardi di persone che vogliono fette di torta anche loro. Sul lato della distribuzione, quindi, tutto quello che a noi europei costava 5, oggi costa 15-20, perché ci sono altri acquirenti. Contemporaneamente questa gente attorno al tavolo delle risorse non ha tutta gli stessi valori culturali: ci sono quelli che hanno i valori culturali di un’etica pubblica socialdemocratica – quindi le elezioni, i diritti politici, sindacali – e ci sono quelli che appunto lavorano – diciamo così – per un pugno di riso. Quindi le cose che producono gli uni costano 10, le cose che producono gli altri costano 2. C’è uno squilibrio formidabile su due piani, quello dell’approvvigionamento delle risorse mondiali e quello della possibilità di vendere i propri prodotti. Questo crea uno squilibrio fantastico.
Il Foglio. E conta il fatto che loro siano confuciani o induisti, conta il lato culturale…
Galli della Loggia. Conta sì. Una società con fortissimi impianti famigliari, come quella confuciana ha ancora oggi, può fare a meno di un welfare tipico della società individualista, in cui ognuno si ammala e non può contare su famiglie, nonni, e molto altro, ma deve mettere tutto a carico del bilancio pubblico. In tutto questo c’è anche il grande problema culturale che è quello dell’impoverimento demografico dell’occidente, soprattutto dell’Europa. La crisi dell’istituzione famigliare come struttura di risorse, di appoggio, deriva anche dal fatto che non ci sono più i figli. La famiglia sono i figli. Tutte queste cose si riflettono pesantemente su una situazione economica che ha dei punti critici, in cui economia, storia ed etica si congiungono assieme per formare uno scenario globale di crisi soprattutto per noi.
Pomicino. Per aggiungere qualche cosa sulla introduzione. Anche da un punto di vista storico io ritengo che il debito sia inizialmente una colpa, ma naturalmente tutto è relativo. Einstein spiegava il suo concetto di relatività dicendo una barzelletta: quanto erano lunghi dieci secondi di un bacio con una donna bellissima e quanto erano lunghi i dieci secondo con un cerino acceso tra le labbra. Nel senso che se si spende ciò che non si ha, è una colpa. Se si spende a debito qualcosa che ritorna in termini di ricchezza, non è una colpa ma al contrario un investimento e uno strumento che allarga l’area del benessere.
Il Foglio. Anzi, è uno dei principi basilari di un’economia capitalistica. L’altra faccia del debito è il credito, gli investimenti, le risorse finanziarie e di capitale…
Pomicino. Infatti l’altro elemento è quello della condivisione del debito da parte degli altri stati con la stessa moneta. Io credo che in larga parte la posizione tedesca sia comprensibile, perché – per fare un esempio e mettendo i piedi nel piatto – l’Italia non è stata capace nemmeno di condividere il proprio debito con la parte più ricca del paese. L’iniziativa del governo Monti ha dato mazzate drammatiche al ceto medio, senza neanche chiedere con un’offensiva di persuasione a quel 10 per cento di italiani che controllano il 45 per cento della ricchezza italiana di dare una parte del loro oro alla patria, sapendo perlopiù che in questo caso la ricchezza difendendo il paese difende anche se stessa.
Galli della Loggia. Non c’era una difficoltà tecnica? Non è che i soldi sono stati presi a chi “non c’era nemmeno bisogno di chiederlo”?
Pomicino. Questo è indubbio, però allora non bisogna laurearsi alla Bocconi per fare una cosa di questo genere, lo fa mia figlia.
Galli della Loggia. Monti non può cambiare un dato generale della storia italiana.
Il Foglio. Questo come battute di attacco e difesa di specifiche politiche. Però, Pomicino, lei ha introdotto un tema interessante: questo “divario culturale” noi lo conosciamo bene, da noi si chiama “questione meridionale”. Noi siamo tutti cattolici, andiamo tutti a messa o non c’andiamo, abbiamo un Papa che è vescovo di Roma e primate d’Italia, abbiamo la Democrazia cristiana nel Dna, però che ci voglia una buona antropologia a spiegare il fatto che a Sassuolo fanno le piastrelle competitivamente e invece – nonostante le isole di eccellenza – nel sud si tende all’arcaico, questo è un fatto oggettivo che viene addebitato a ragioni culturali.
Pomicino. Non c’è dubbio che il sud aveva ed ha, in termini economici, quello che storicamente si era consolidato nella Germania dell’est. Ma perché in tempi brevissimi la Germania occidentale ha risolto i problemi del benessere dell’area orientale e noi da 150 anni abbiamo ancora il problema del Mezzogiorno? Perché mentre lì c’era un paese culturalmente ed emotivamente unito, un paese con comportamenti comuni nel bene e nel male, da noi invece siamo ancora all’Italia dei comuni, delle regioni, un’Italia molto differenziata culturalmente e politicamente, sulla quale però si è inserita una politica che solo dal Dopoguerra ha cominciato ad affrontare il tema del Mezzogiorno. Non devo ricordare qui la riforma fondiaria avvenuta, il Piano casa, l’alfabetizzazione del Mezzogiorno, tutte cose positive. Vi dico solo un dato: noi nel 1991-92 avevamo il reddito pro capite nel Mezzogiorno, ancora così lontano da quello del Nord, che aveva superato il 60 per cento del reddito del nord. Oggi siamo ridotti a molto ma molto di meno. Cosa voglio dire? C’è questa difficoltà che si incarna nella dotazione culturale ed emotiva delle popolazioni che fanno accelerare o ritardare l’evoluzione e la diffusione del benessere, ed è la politica che deve affrontare questo genere di faccende.
Per tornare solo un momento al discorso dell’evoluzione storica: anche io che ritengo di essere stato uno dei migliori ministri del Bilancio del Dopoguerra – per i dati e non per le opinioni, ovviamente – penso non ci sia dubbio che la riforma immediata delle pensioni, l’aumento delle tasse, costituivano la manovra d’emergenza. Quello era il Pronto soccorso, dove allo sparato si mette subito mano per salvarlo dalla ferite. Ma subito dopo, se fai una operazione di questo genere, devi accendere la luce e devi recuperare risorse o abbattere il debito che è la stessa cosa…
Il Foglio. Colpendo i risparmi…
Pomicino. Non “colpendo”, ma condividendo…
Il Foglio. Bene, siamo partiti da una discussione su debito e colpa, e siamo arrivati alla conclusione che in Italia non si condivide né il debito né la colpa. E se è difficile realizzare questo progetto nazionale, figuriamoci in Europa, figuriamoci nel rapporto tra Europa e resto del mondo che aveva descritto Galli della Loggia nelle sue coordinate all’inizio.
Umberto Silva. Sì, partirei infatti da questo concetto fondamentale, ovvero che il debito è la colpa. La situazione tedesca dà motivo di intendere tutto quello che la Bibbia già aveva chiaramente detto. Ovverosia: il debito non è altro che il peccato originale. Io lo chiamo “peccato originario”, o “debito originario”, perché originario è ciò che incessantemente si rinnova. Il debito, come il peccato, è ciò che incessantemente si rinnova, e nessuno ne è esente. E nessuno può saldarlo una volta per tutte, questa è la bellezza. Il debito è la modalità con cui ciascuno esiste. In un ampio ringraziamento, perché il debito presuppone il ringraziamento. Il ringraziamento va a comprendere non solo Dio, ma anche l’Io, le imprese che si fanno nella propria esistenza, il mondo che ci circonda, l’altro. Pensarsi viceversa perfettamente autosufficiente e autonomo, senza debito alcuno, è il modo più veloce per diventare spietati, innanzitutto con se stessi. Si nega il debito per non accedere alla grazia e al ringraziamento, preferendo odiare colui cui si pensa di dovere qualcosa. A tal proposito ricordo un bellissimo aforisma di Cioran: “L’unica felicità della vecchiaia è di vedere crepare, uno dopo l’altro, tutti coloro che hanno creduto in noi”. E questa è proprio una forma di negazione del debito. Non ammettendo il debito, ci si sente in credito. Si rivendica quel che non si ha avuto il coraggio di fare; allora escono frasi, invocazioni come “ridatemi la mia vita! Ridatemela”, e riprenditela se hai il coraggio, altrimenti smettila di imprecare.
Altra caratteristica del debito è che il debito è impareggiabile. E’ inutile sforzarsi di pareggiare i conti, di farli tornare. Qualcosa, grazie a Dio, avanza sempre, c’è sempre un resto, un “ancora”, che impedisce di chiudere la partita una volta per tutte, di far quadrare il cerchio, di creare una comunità necrofila dove tutti i conti tornano. Grazie al debito e alla paranoia che vi è legata, questa smania di completezza fallisce. E si continua a parlare. Sodoma non vinse, direi; Sodoma come regno dell’autosufficienza domestica, del sale e del secco, quei luoghi così ben dipinti da Michel Tournier – che scrisse libri sui Re Magi -; direi che il debito frantuma ogni contabilità, poiché introduce l’impossibile dell’amore, introduce anche l’oscurità della parola. Magari quella parola oscura cui spesso mi appello, ma penso che più importante di essere capito sia importante poter rivolgere il mio discorso amoroso.
Il Foglio. Quindi Pomicino, Craxi, Carli e molti di noi che negli anni 80 abbiamo assistito al rigonfiamento del debito pubblico possiamo comunque rivendicare lo statuto di teologi.
Alberto Mingardi. E di amatori…
Silva. Altolà però! Il debito pubblico italiano è davvero un debito o no? Questa è la questione centrale. Perché se il debito pubblico è la continuazione della spesa pubblica, è un sostegno, benissimo. A patto però che si tratti davvero di debito di spesa, vale a dire si tratti di slancio, scommessa, investimento. Se è così, il debito è un modo di relazionarsi all’altro, al commercio, alla competizione, e il pater noster ci sdebita. Se invece non si tratta di spesa pubblica ma di dissipazione, allora le cose cambiano, perché non è in gioco il debito ma il latrocinio. Lo spreco è parricida e figlicida, il padre deve morire e niente deve nascere. Padre, pater, patrimonio, patria, in Italia si spaccia per debito l’appropriazione indebita dell’altrui lavoro, dell’altrui vita.
Il Foglio. Questo è anche un bel gioco di parole: il debito come appropriazione indebita. Ma io penso che a questo punto dovremo essere severamente castigati da Alberto Mingardi.
Mingardi. A me sembra che è stato descritto un tema molto più ampio di quello del debito: questa è la contabilità della vita, abbiamo tutti un debito con il mondo che c’era prima di noi, speriamo di lasciare qualcosa per cui anche le generazioni successive siano indebitate nei nostri confronti. Però devo dire che una frase bella e rotonda come “il debito frantuma ogni contabilità” ha una sua sapienza anche di questi giorni. I temi sono diversi: c’è la questione del debito posta dal libro di Anderson che, per quanto posso arrivare a comprendere io, è interessante sia per il debito, ma anche per il peso, cioè per la metafora del peccato che c’era prima del Deutero-Isaia. E poi c’è una questione più mondana, cioè come dobbiamo comprendere il debito oggi per diverse categorie di debitori. Qua non si può scappare da una differenza fondamentale. Se riavvolgiamo un po’ il nastro, prima di Keynes, gli economisti classici ritenevano che lo stato fosse una grande famiglia e quindi i precetti di buona gestione economica che si applicavano alla vita delle famiglie dovevano valere anche per lo stato. In realtà purtroppo noi abbiamo qualcosa di diverso rispetto a loro, cioè abbiamo aggiunto una dinamica politica dell’indebitamento che non era assolutamente prevedibile nel 1776, quando Adam Smith scrive “La ricchezza delle nazioni” non essendo titolare del diritto di voto nemmeno lui stesso…
Galli della Loggia. Non esisteva il suffragio universale, il grande padre del debito pubblico.
Mingardi. Ecco. Ai tempi degli economisti classici, uno dava consigli al Principe ma era convinto che non ci fosse una dinamica di spesa influenzata dagli andamenti del consenso. Allora qui dobbiamo scindere: da una parte c’è l’indebitamento di una persona e di una famiglia, dove le regole sono rimaste più o meno le stesse. E’ perfettamente legittimo che una persona ritenga di indebitarsi per uno, due o tre anni perché ritiene che nel suo futuro ci sia crescita personale, che il suo reddito vada a salire, perché è convinto che indebitandosi compra il capannone nuovo e quindi sarà in grado di guadagnare di più. Tenendo presente che quella persona, nel caso si trovi in una situazione come quella della Grecia, ha una punizione chiarissima e codificata. Dall’altra abbiamo invece questo sfasamento: per cui il tabù dell’eccesso di debito che sopravvive per un po’ come regola stratificata, come insegnamento delle generazioni, è completamente scomparso dalla sfera pubblica, esattamente perché c’è il suffragio universale. Per cui l’indebitamento è il modo che le classi politiche utilizzano per corrompere gli elettori con i soldi dei figli.
Galli della Loggia. I quali vogliono essere corrotti! Provo un attimo ad arrivare alle altezze inarrivabili della Bibbia. Io ho dei dubbi sulla correttezza filologica dell’inizio di questa conversazione e cioè che il debito sia una colpa. In realtà, stando alla Bibbia, il debito nasce da una colpa perché la colpa obbliga al reintegro. L’occhio per occhio, dente per dente. La colpa crea un debito verso la vittima, è diverso.
Il Foglio. Qui però la vittima è il creditore, e quindi siccome è un sistema fondato sul credito…
Galli della Loggia. E’ per questo che in tedesco “colpa” e “debito” sono la stessa cosa. Perché la colpa crea un debito, ma non che il debito è una colpa. Quanto al fatto che tutte le politiche hanno bisogno a un certo punto di ricorrere ai soldi per comprare consenso, lo dimostra proprio la Germania. La Germania est fu investita da una decisione politica di Kohl che come noto decise non solo di cambiare un marco dell’ovest con un marco dell’est, ma cominciò a indirizzare un flusso di risorse inaudito verso la Germania est, sapendo che se non si faceva così la Germania est sarebbe rimasta un’isola di dissidenza politico-ideologica formidabile. Il problema è come vengono spesi i flussi di risorse. Io ignoro tutto del meccanismo politico interno della Germania, ma probabilmente lì c’è stata una gestione nazionale della spesa analoga a quella che ci fu in Italia negli anni 50 con la riforma agraria, che non passava attraverso le classi politiche locali. La cosa funesta del Mezzogiorno d’Italia sono le classi politiche, gli enti locali, le regioni, le province, i comuni, sono dei cancri che andrebbero estirpati. Quindi non basta parlare del suffragio universale e della politica che deve spendere per comprare il consenso: fondamentale è vedere le leggi elettorali, gli enti locali, chi gestisce la spesa. Ripeto: la spesa nazionale per il Mezzogiorno degli anni 50 non creò malavita, intermediazione mafiosa, eppure fu un flusso di risorse enormi. Perché invece dagli anni 70 in poi questo salta? Questo è il punto nostro, della storia politica italiana, ma allora qui veramente il debito è diventato una colpa. La colpa dei marrazzoni che hanno incominciato a farne…
Pomicino. Però vorrei aggiungere due cose, una sulla interpretazione della Bibbia e la critica del professore Ernesto Galli della Loggia: da cattolico peccatore, vi spiego perché il debito, che è una colpa, può diventare il bene, come spesso accade. E lo dico riportando la vostra attenzione sugli anni Ottanta, da sempre ritenuti gli anni della criminalità politica, criminalità intesa come creazione del debito. Gli anni Ottanta iniziarono con una inflazione nel 1980 al 20-21 per cento, con lo stampare moneta da parte della Banca d’Italia, e con un terrorismo che aveva ammazzato nel 1978 Moro e che continuò, iniziando anche una campagna nel meridione ammazzando proprio uno dei miei più cari amici, un consigliere regionale, e proseguendo fino al rapimento Cirillo e quant’altro. In quell’occasione, e io non ero al governo quindi posso testimoniarlo senza essere parte in causa, ci fu la decisione del governo dell’epoca – con Andreatta al Tesoro – di fare il cosiddetto divorzio tra Tesoro e Banca d’Italia. Da quel momento in poi, per tutte le necessità di finanziamento che il Tesoro aveva, l’esecutivo non andava più dalla Banca d’Italia che gli stampava moneta ma doveva andare sul mercato per recuperare risparmio emettendo titoli di stato. Se dovessi domandare a Mingardi e Galli della Loggia: qual è stata “la colpa” degli anni 80? “Le spese facili”, risponderebbero. Vi devo purtroppo contraddire. Non lo dico io, ma i dati della Banca d’Italia. Il dato vero è che dal momento in cui si è fatto il divorzio della Banca d’Italia la pressione fiscale non è stata aumentata, mentre la spesa pubblica rispetto al pil è rimasta grosso modo inalterata attorno al 37 per cento. La pressione fiscale, dal 1981 – epoca del divorzio con la Banca d’Italia – fino al 1986 fu del 35 per cento, mentre in Francia e in Germania già c’era una pressione fiscale del 41-42 per cento. Allora la domanda è: ma Visentini, per molti anni ministro delle Finanze, era un po’ rimbambito? I vari presidenti del Consiglio, Craxi compreso, erano tutti ridondanti, o c’era una ragione per la quale la pressione fiscale fino al 1987-88 non si adeguò a standard europei? La ragione era semplice, noi avevamo all’inizio degli anni Ottanta tre grandi problemi: l’inflazione a due cifre, il terrorismo che sparava e l’esigenza di mercato dettata dal divorzio della Banca d’Italia. Non c’è dubbio che dinnanzi a questo la politica scelse – come sempre deve fare una politica saggia – di mantenere coeso il paese e il mantenimento della coesione sociale passava per l’abbattimento dell’inflazione e l’abbattimento del terrorismo, mettendo il costo di questa operazione sulle spalle di Pantalone, sapendo una cosa semplice: che mettendolo sulle spalle della società italiana, non c’era bisogno di cedere sovranità (visto che il 90 per cento dei titoli del debito pubblico era delle famiglie italiane). Di quanto sto dicendo vi consegnerò le carte, perché sono abituato davanti ai Pubblici ministeri, come noto. Quando nel 1988 erano stati sconfitti terrorismo e inflazione, si iniziò il risanamento dei conti pubblici, per cui il ministro del Tesoro Carli ha ricevuto dal ministro del Tesoro Amato, governo De Mita, un disavanzo primario di 38 mila miliardi ed ha restituito ad Amato, presidente del Consiglio del 1992, un avanzo primario di 6 mila miliardi di vecchie lire. Cioè un avanzo primario dello 0,5-0,6 per cento del pil, poi Amato ci mise del suo e superò l’1 per cento. Che cosa voglio dire? E’ vero che noi abbiamo costruito un debito, ma è anche vero che se avessimo fatto la politica che ci insegnano ad Harvard, in quella stagione avremmo avuto una implosione della società italiana, perché avremmo aggiunto all’inflazione e al terrorismo anche una politica di bilancio restrittiva, aumentando di 4-5 punti la pressione fiscale o riducendo alcune spese correnti. E’ anche giusto dire che in quel percorso alcune colpe sono esistite, come è il caso per le norme sulle baby pensioni.
Il Foglio. Gli anni Ottanta possono essere giudicati come una colossale deriva verso il debito pubblico oppure una cosa molto diversa, come ce li ha descritti Pomicino. La finanziaria del ’92 di Amato, quella da 90 mila miliardi di lire, è lo spartiacque: dopodiché si apre la maggiore integrazione delle economie finanziarie e poi si andrà a Maastricht e all’euro. Ma in quegli anni non ci fu solo la coesione, ma anche il desiderio. Se facciamo bene i conti culturali con quell’epoca italiana, bisogna riconoscere che fu una specie di incubazione e di prototipo di quello che poi ha tentato di accadere con l’avvio del berlusconismo nel 1994. Io ricordo che Craxi diceva “la Borsa va, la nave va”, l’idea era “fate, intraprendete”, era un appello al settore privato a muoversi in corrispondenza di questa pressione fiscale bassa e di queste condizioni competitive che lo stesso debito paradossalmente rendeva possibili.
Galli della Loggia. La società italiana riprese fiato dopo 30 anni che era alla corda, prima con la ricostruzione, poi con la turbolenza del ’68 e poi gli anni Settanta. Lì la società italiana riprese fiato e “ritornò al privato”.
Pomicino. E solo per la storia, devo ricordare che in quegli anni due cose sono importanti, perché daranno ai governi Amato e Ciampi la possibilità di dare altri colpi virtuosi. L’11 dicembre del 1991, nella mia stanza di ministro del Bilancio, insieme agli altri ministri abolimmo definitivamente la scala mobile. E l’altra cosa che nessuno dimentica – ecco perché migliorammo i conti – è che all’epoca esisteva una norma per la quale quando si rinnovavano i contratti dei metalmeccanici, una parte rilevante dell’aumento veniva traslata anche sui pensionati del settore metalmeccanico, con un aggravamento dei costi impressionante. Queste due cose hanno fatto risparmiare decine di migliaia di miliardi. E solo per farvi divertire, a proposito del debito pubblico, Giannino in maniera molto chiara lo ha detto, è bene guardarlo in termini assoluti: il debito nel 1992 era di 849 miliardi di euro; oggi siamo a più del doppio. Essendo passati 20 anni, avendo venduto 160 miliardi di aziende pubbliche, e con 20 anni di manovre finanziarie. Non devo aggiungere altro.
Il Foglio. Silva, gli anni Ottanta come impasto di debito, coesione e desiderio?
Silva. Sicuramente c’era una speranza allora, seppur necessariamente e giustamente confusa, una confusione prolifica. Nietzsche dice che ciò che è comune non è mai bene; le esortazioni per agire in proprio sono benefiche. Però per anni non torneranno più. Hai parlato di spartiacque, ma per me lo spartiacque è avvenuto in questi giorni, quando è esplosa la questione dell’Ilva di Taranto. Questi lavoratori hanno detto chiaramente che per loro c’è il lusso di scegliere se morire di fame o di veleno; di fronte a una cosa del genere, tante chiacchiere mi sembra che perdano di valore improvvisamente. Io stesso mi sono indignato contro me stesso di non avere inteso prima come vivessero queste famiglie. Allora viene l’idea di chiedersi: va bene, la spesa pubblica è stata maggiore un anno e minore un altro, il debito pubblico è stato minore o maggiore, però com’è stato speso? Dove sono andati a finire questi soldi? Per sostenere questi operai o magari per pagare profumatamente quelli che vengono chiamati – con un nome che mi fa sempre ridere – i famosi “fedeli servitori dello stato”? Ma chi sono? Quando sento questa parola, detta con deferenza, per indicare gente che per compiti dati si becca milioni in stipendi e liquidazioni, la mano mi trema per il furore. Per servire lo stato uno dovrebbe accontentarsi di qualche centinaio di euro.
Il Foglio. Insomma, sei un grande psicanalista e un grande scrittore, però vivi a Padova, perciò c’è qualcosa di Gian Antonio Stella in te. Possiamo dirla così?
Silva. Dì tutto quello che vuoi!
Mingardi. Volevo dire una cosa a proposito dell’intervento di Pomicino. Probabilmente, se dovessimo andare a vedere le dinamiche strutturali di aumento della spesa, dovremmo andare a vedere gli anni Settanta, il periodo in cui la dimensione del pubblico impiego si dilata. Perché questo sia avvenuto è stato detto ed è chiaro: un momento con le tensioni che conosciamo, in cui bisogna comprimere l’edificio nazionale che sta franando. Da questo punto di vista il problema vero è quello degli ultimi 20 anni, cioè l’impressione della deriva. Noi non riusciamo a incassare il dividendo della pace…
Galli della Loggia. E anche il dividendo dell’euro, che nei primi anni ci avrebbe consentito di alleggerire il debito…
Mingardi. Ma il mancato incasso del dividendo dell’euro è ancora più grave. Nel senso che il dividendo dell’euro diventa lo strumento con il quale perpetuiamo una certa situazione. Noi, anziché dire “siamo arrivati qui, c’è questo benedetto Trattato di Maastricht, obbediamo”, pensiamo – avendo ragione fino a due anni fa – che il trattato di Maastricht sia stato negoziato essenzialmente in un suk, tra persone perfettamente consapevoli che stavano facendo una professione formale di rigore nella finanza pubblica. Il “patto è stupido”, come dice autorevolmente il presidente della Commissione Ue Prodi, e nel momento in cui il patto è stupido per Germania e Francia, come può non essere stupido anche per noi? Forse, se lo avessimo considerato un po’ meno stupido ci saremmo trovati in una situazione diversa. Però il punto è che le crisi di debito si verificano anche per una mancanza di attenzione alla direzione della nave, cioè sono crisi inerziali, non c’è l’esplosione di un problema, c’è un lento scivolamento nella condizione in cui poi lo status quo diventa insostenibile.
Il Foglio. Però, siccome stiamo cercando di fare un discorso in cui la componente culturale e ideologica è importante, io mi aspettavo di sentire dire da te che coesione, anni Settanta, patti riformisti di tipo consociativo, sanità, regioni, gli anni Ottanta che non sbocciano, tutto questo fino all’euro tradito – cioè il mercato unico, l’apertura delle frontiere, la globalizzazione – mi aspettavo di sentire questo da te, in quanto direttore dell’Istituto Bruno Leoni: alla fine tutto il problema è che lo stato vuole contare troppo nella vita delle persone e nel funzionamento della società. Perché questo è anche un punto interessante: la Cina ha realizzato quel che ha realizzato, ed è un paese piuttosto flessibile, con la dittatura del partito unico, con uno stato che è padrone del campo.
Galli della Loggia. Ma il massimo della flessibilità lo garantisce il dominio politico assoluto, visto che puoi fare quello vuoi.
Pomicino. Ma sia Mingardi sia Della Loggia questo lo hanno già sostenuto, in maniera subliminale, quando hanno detto che il grande padre del debito pubblico è il suffragio universale, e questo è il rischio che stiamo vivendo, e che io temo, nell’attuale deriva. C’è il rischio che la incapacità di coniugare globalizzazione, finanza ed economia reale, stia facendo implodere il modello politico occidentale a favore di un modello politico autoritario.
Mingardi. Tre cose su questo. Uno, il suffragio è problematico perché ovviamente è termometro del pensiero diffuso nel paese. Allora se uno si chiede che cosa sia mancato negli scorsi vent’anni, la risposta è: lo stesso che è mancato in Italia negli ultimi 150 anni. Cioè in Italia manca una rappresentanza attrezzata di quelli che potremmo definire gli interessi dei ceti produttivi. E’ quello che non sboccia negli anni Ottanta e nel decennio successivo. L’istanza di riduzione del perimetro dello stato non trova un momento politico radicato. Secondo problema: è possibile pensare che un processo di riforme del paese sia sempre e solo affidato a dei vincoli esterni?
Il Foglio. La moneta che hai in tasca non è più un vincolo esterno.
Mingardi. La moneta che ho in tasca è moneta estera rispetto al debito nazionale, quindi di fatto va a costituire un vincolo esterno all’indebitamento. Terza cosa: quanto detto sulla Cina è tutto vero, ma è molto più complicato di così. Abbiamo a che fare con un paese gigantesco che ha avuto a che fare anche con notevoli forme di ibridazione ideologica sottotraccia, e che presenta probabilmente una natura molto più frammentaria e localistica di quanto ci rendiamo conto stando in Italia e di cui non si rendono conto perfino gli stessi sinologi. Alla fine la cosa incredibile della Cina è che il carro delle riforme viene rimesso sulla strada da un giro di conferenze di Deng un anno e mezzo dopo Tien An Men e che vengono pubblicate con sei mesi di ritardo perché bisogna preparare il consenso nel partito: sono dinamiche completamente diverse dalle nostre. E secondo me è completamente un errore pensare che i tempi della decisione politica devono andare alla stessa velocità di quella dei mercati, perché non è possibile. Questo è uno dei grandi argomenti per ridurre lo spazio della decisione politica.
Il Foglio. C’era Silva che voleva dire qualcosa sulla Germania.
Silva. Sulla Germania ho l’impressione che i tedeschi paventino il debito, il debito inteso in senso buono. Ho l’impressione che il debito lo detestino, che pensano possa portarli alla perdizione, e perciò – non perché sono persone cattive, naturalmente – oscillano nel voler contribuire, dare, etc. Probabilmente perché il debito ricorda il loro debito, il loro debito originario del Dopoguerra, quel debito che hanno contratto con gli americani che li hanno rimessi in piedi grazie a diluvi di dollari, quel debito che hanno contratto tutti gli europei quando fraternamente – nonostante tutto quello che hanno combinato – li hanno accolti nell’Europa. Ora fanno i ragazzi modello come se nulla fosse successo, e probabilmente ammettere questo loro antico debito comporterebbe ammettere la terribile colpa che ha generato questo debito, e quindi non possono essere più generosi di tanto. C’è una sorta di imbarazzo nel loro comportamento. Merkel stessa quando deve decidere sembra che sia da un’altra parte, dice sì e no, come se lasciasse dietro di sé delle caramelline per meglio dileguarsi.
Il Foglio. Sono affetti da una forma di rimozione…
Silva. Di negazionismo quasi.
Mingardi. Una cosa banalissima: non so cosa rimuovano i tedeschi quello che non rimuovono i tedeschi, ed è una testimonianza straordinaria di quanto possano durare le memorie politiche, sono i ricordi della iperinflazione. Il tedesco non teme la colpa del debito: teme la sua espiazione attraverso una politica inflazionista.
Il Foglio. Che cosa bisogna fare? Cioè in questo contesto in cui le radici non sono solo algoritmiche ma anche culturali, cosa deve fare in Europa e nel mondo un paese come l’Italia? Cirino vuole la patrimoniale…
Pomicino. Nooo, io ho fatto una proposta che è l’esatto contrario.
Il Foglio. Prestito forzoso, come lo vogliamo chiamare?
Pomicino. Un “contributo volontario premiato”. Se volete lo spiegherò. Però, per capire cosa bisogna fare, bisogna capire cosa è successo, come avviene al Pronto soccorso. Nel 1992 si è globalizzato non solo lo scambio di merci e di uomini, ma anche quello di capitali, già iniziato in parte negli anni Ottanta. Si è determinata una deregolamentazione dei mercati finanziari, ritenendo, nel pensiero unico degli anni Novanta, che il mercato avesse la capacità di autoregolarsi e che fosse l’unica fonte del benessere prodotto. Questa era una delle follie gravi, perché il mercato è garanzia delle libertà personali e collettive ma quelle libertà possono uccidere altre libertà se non disciplinate. Per cui la finanza è divenuta un’industria a sé stante, dove la materia prima sono i soldi e il prodotto sono più soldi, staccati dall’economia reale…
Galli della Loggia. Lo diceva già Lenin questo…
Il Foglio. E anche Hilferding.
Pomicino. Ma anche il cattolicesimo politico. Che cosa è accaduto su questo versante? Che l’economia di mercato ha prodotto un figlio degenere che è il capitalismo finanziario, il quale sta ammazzando la sua mamma che è l’economia di mercato e sta determinando – soprattutto in Occidente – un impoverimento del ceto medio, garantendo delle élite di ricchezze finanziarie sempre più ricche…
Il Foglio. E per riprendere Heidegger che diceva “solo un Dio ci può salvare”, ora solo la finanza ci può salvare.
Pomicino. Ma la finanza non è una malaparola, è l’eccesso di finanza il problema.
Il Foglio. Ma come fa a dire questo se buona parte del nostro problema oggi deriva dal fatto che c’è una regola, in un Trattato, che impedisce alla finanza di esplicitarsi fino in fondo per la sua stessa natura, cioè la Banca centrale europea non può stampare moneta per garantire il debito degli stati sovrani come avviene in tutto il mondo.
Pomicino. Ma voi lo sapete quant’è il debito della Germania in rapporto al pil? L’82 per cento. E quello degli Stati Uniti? Il 110 per cento. Ad oggi il Giappone è al 190. Il dato vero è che i mercati guardano non solo allo stock di debito ma alla sostenibilità del debito, cioè alla crescita. Allora il dato vero è che questo è compito della politica, sia europea che italiana: se abbiamo un presidente del Consiglio che tutto il mondo ci invidia, lui può essere un ambasciatore su questo versante, cioè il ridisciplinare i mercati finanziari, cominciando da un nuovo ordine monetario. Sul piano italiano, badate bene che quella che oggi è una forte competizione, quella cinese e quella indiana, che si contrasta con la nostra innovazione di processo e di prodotto, fra 10-15 anni quel miliardo di cinesi che oggi sono produttori a basso costo saranno consumatori. E quindi il mondo si riaggiusterà.
Il Foglio. C’è un problema segnalato da un vecchio guru di Wall Street, che dice: per adesso sono produttori a basso costo perché i brevetti glieli diamo noi, ma stanno studiando anche loro. Quando i cinesi produrranno i tablet inventati da loro…
Pomicino. Ecco perché dovremo investire in innovazione, ecco dove il debito può essere una virtù. Per cui il pareggio della bilancia corrente è la regola aurea della scienza delle finanze, ma un indebitamento mirato per migliorare competitività e innovazione può essere un bene.
Il Foglio. Allora, cosa è possibile fare visto che la guerra non è possibile o almeno è altamente sconsigliabile e non auspicabile. Se questi sono i dati di fatto, con il suffragio universale che pure non si può abolire…
Galli della Loggia. Mingardi dice che il dramma italiano è dominato dal sacrificio dei ceti produttivi perché c’è stato un eccesso di statalismo. In realtà i ceti produttivi italiani sono stati in grande parte statalisti, questo è il problema del paese. E hanno sempre succhiato risorse. Si sa benissimo che i liberisti italiani – Edoardo Giretti e tutta quella gente lì – polemizzavano duramente contro le sanguisughe, i trivellatori dello stato, che erano interessi privati. Questo è venuto meno in Italia, e credo che questo sia avvenuto perché in una società che non fa più figli è difficilissimo credere e investire sul futuro, pensare che le scelte del presente devono essere fatte in funzione del futuro. Una società individualista senza figli ha una difficoltà psicologica fortissima a pensare un oltre da sé. D’altra parte una situazione di crisi economica ti obbliga a fare dei sacrifici oggi – qualunque essi siano, non lo so perché non sono un economista – per rimettere in piedi la situazione domani. E la seconda cosa che non ci riesce di fare da molto tempo è avere delle idee. Le nostre forze politiche sono in uno stato comatoso da un punto di vista politico e ideologico, non hanno idee. In una situazione che generalmente è considerata la più critica che il paese conosce da 30 anni, nessuno che dica: secondo me bisogna fare così.
Il Foglio. Non c’è nessuna prefigurazione. Fertilità di figli e fertilità di idee.
Pomicino. Sono fuggiti dal governo!
Galli della Loggia. Anche noi, ceti colti del paese, che cosa proponiamo?
Pomicino. Colto? Io sono corto…
Silva. La questione del figlio è centrale, intesa in senso ampio. Il figlio come bambino, il figlio come impresa, il figlio come parola, il figlio come pensiero. Il figlio è il pensiero, il pensiero è il figlio, se non c’è l’uno non c’è neanche l’altro. Senza figlio si è destinati a non pensare, a vivere di compulsione e tristezza. Anche per questo penso che il rilancio non possa venire dall’alto; certo, qualche indicazione la può dare il capo del governo o il presidente della Repubblica, il Papa e via dicendo, ma ci dev’essere una rinascita della spiritualità e del patriottismo. È soltanto il popolo che può cambiare, non lo si può cambiare con la forza. Deve scaturire un rinnovamento, non so come, da un esempio, da qualcosa che le persone possano cogliere nell’aria.
Mingardi. Tra qualche anno forse guarderemo questa fase trovandoci una sua logica, perché siamo in una situazione dove si va avanti con poche carote e un po’ di bastone. Siamo addirittura in un momento in cui stiamo chiedendo al presidente della Banca centrale europea di sostituirsi al meccanismo dei prezzi, di fermare il differenziale tra Btp e Bund esattamente a quel punto dove c’è un po’ di sollievo ma non ce n’è troppo, per cui i paesi non si adagino troppo. Io spero che un giorno, guardandoci indietro, vedremo un disegno coerente e potremo dire che in una situazione difficile, sotto tante pressioni, tante cose sono state fatte che altrimenti non sarebbero venute. Per adesso sembra un frullato venuto male. Dal punto di vista dell’Italia, è evidente quale sia la risposta di un liberista: noi dovremmo vendere, vendere, vendere, noi dovremmo ridurre in maniera sostanziale la spesa pubblica, ma qui c’è di nuovo il problema di poc’anzi: pensare che un’operazione di questo genere sia fattibile solamente in virtù di un vincolo esterno, senza che gli italiani siano convinti…
Il Foglio. Galli della Loggia ricorda però che i ceti produttivi italiani sono statalisti…
Mingardi. Sono d’accordo storicamente sul fatto che in Italia c’è stato uno sviluppo del capitalismo fortemente intrecciato con l’economia pubblica, però attenzione, quello è un altro problema di creazione di una rappresentanza, di un universo simbolico, di un insieme di idee che portano la gente a pensare che un diverso sviluppo del paese è possibile. Poi è evidente che oggi gli italiani dovrebbero imparare a fare altre cose, dovrebbero imparare – per dire – a fare bene una cosa che pare essere il nostro destino, cioè essere la Disneyland del mondo; dovremmo pensare che forse la bellezza può essere un moltiplicatore molto più significativo di quanto non lo sia stato fino ad ora. Noi non possiamo incardinare questa austerità soltanto su dei parametri numerici, perché altrimenti probabilmente non regge, e paradossalmente torniamo di nuovo al problema della coesione sociale del paese, arrivandoci dalla porta di servizio.