Il regista Guth e il direttore Barenboim insistono sul romanticismo dell’opera, l’amore infelice con Elsa, ironia della sorte accompagnato dalla marcia nuziale più famosa
di Egle Santolini, lastampa.it, 7 dicembre 2012
Prima di tutto, attenzione a Elsa. Quella di cui si sa il nome fin dall’inizio, la damigella in pericolo che attende il bel cavaliere pronto a salvarla: perché nessuno le ha insegnato, poveretta, che i principi azzurri possono finire per deludere. Un sicuro elemento di novità, nello spettacolo che va in scena stasera alla Scala, è proprio l’accento sul personaggio femminile, fin qui spesso drammaturgicamente trascurato, al massimo racchiuso in una fredda ieraticità di principessa cristiana, sposa promessa, orfana nelle grinfie della strega. Sentiamo invece come la vede Claus Guth, regista che ha l’abitudine di costruire il background dei personaggi con una tecnica all’Actor’s Studio, mappandone le motivazioni inconsce e immaginando anche quello che sulla scena non verrà mostrato: «Elsa è il contraltare necessario di Lohengrin, l’uno è incomprensibile senza l’altra e viceversa. Il loro dramma è l’inconciliabilità delle proiezioni che ciascuno carica sull’altro, perché lei aspetta una figura maschile salvifica e lui una donna che lo faccia crescere».
Elsa viene accessoriata, nella versione Guth con scene e costumi di Christian Schmidt, di una sinistra infanzia Biedermeier: lezioni di piano, governanti cattive con la bacchetta (Ortrud, proprio lei), incubi edipici, perfino tentazioni incestuose. Spera di redimersi con un bel matrimonio. Ma finisce malissimo, purtroppo, dopo quella marcia nuziale che qualcuno si ostina ancora a usare nella vita vera: e non si capisce come mai, visto che in Wagner fa da colonna sonora al matrimonio più sfortunato dai tempi di Romeo e Giulietta. Finisce in bianco, con un Peter Pan irrisolto che torna da papà, a Monsalvat, e una Elsa destinata nella migliore delle ipotesi a un futuro di madama reale, vedova/zitella accanto al fratello minore non più cigno ma intanto destinato al comando, certo «aus Schmach und Noth befreit», liberata da onta e angoscia, purgata dal senso di colpa che l’assillava e dalla presenza delle due anime nere Telramund e Ortrud: ma quanto sarà lunga e noiosa la sua vita possiamo soltanto immaginarcelo.
E’ pur vero che alla fine gliel’ha chiesto. Non è stata forte abbastanza da resistere alla curiosità di sapere, lui, da dove veniva. Anche se la motivazione è stata imprescindibile: «Nichts kann mir Ruhe geben, dem Wahn mich nichts entreisst, nulla può darmi pace, nulla mi salva dal delirio se non sapere chi tu sia, sia pure a prezzo della vita». Lui cede e parla. Secondo Jonas Kaufmann, sensibile interprete di un Lohengrin raggomitolato nella propria inadeguatezza, a piedi scalzi e perfino con i tic, qui c’è però anche un bel po’ di vanteria, «perché a quel punto si ha la sensazione che non veda l’ora di raccontare chi è, di far sapere che è ben più importante del re di Germania. Ricordate: quei due non riescono a rimanere soli per quasi tutta la durata dell’opera, è un continuo rimandare, un non potersi guardare negli occhi». Nella camera nuziale il nodo si scioglie in modo concitato: «Lì, i segreti non si possono tenere»: E poi, davanti ai conti di Brabante: «So hört, ob ich an Adel euch nicht gleich!, Udite dunque, e dite se non vi sono pari in nobiltà! ». Ma narcisismo e masochismo si coniugano strettamente, e vantandosi «Lohengrin perde tutto, il senso della propria missione e la donna amata. Quel che è peggio, sa fino in fondo che la colpa di quel disastro è tutta sua».
Guth e Barenboim insistono sulla natura romantica dell’opera, dichiarata programmaticamente: sul senso di delusione del giovane Wagner esiliato dopo i moti del 1848, sulla «gabbia razionalizzante – qui è ancora il regista che parla- che all’epoca stava rinchiudendo la sensibilità delle persone, il loro bisogno di fantasia». Di qui gli elementi scenici che rimandano a una natura idilliaca, al centro del palcoscenico, e tutt’intorno un ferroso falansterio metà fabbrica e metà prigione, popolato più da soldatini di piombo prussiani che da cavalieri medioevali.
Barenboim, da parte sua, ha l’humour di minimizzare: «Che cosa posso dirvi? È quasi tutta in quattro quarti, è quasi tutta in la maggiore. Dal punto di vista armonico è certo la meno interessante delle opere di Wagner, ma anche quella con i temi più facili da ricordare, una linea melodica affascinante che dà l’illusione di accompagnare in paesi lontani». Insiste dunque sull’italianità del Lohengrin, così come emerge dalla corrispondenza fra Liszt che per primo lo diresse e l’autore alla ricerca di interpreti «che cantassero con il legato del belcanto, declamando e dando l’illusione del parlato: ecco – chiosa Barenboim – la chiave dell’espressione wagneriana». Cita una metafora perfino brutale di Pierre Boulez: «Wagner pesa ogni strumento come il macellaio fa con i vari tipi di carne quando prepara gli hamburger». E nella sua personalissima vena etico-musicale si concentra sul mistero della commozione di Adolf Hitler, che durante certi passaggi non tratteneva le lacrime (Himmler, invece, si identificava misticamente con re Enrico l’Uccellatore). «Sì, me l’ha confermato Wieland Wagner, so anche quali erano i punti precisi. Ma non ve li elenco perché altrimenti non ce la fareste più ad ascoltarli».