di Daniela Scotto di Fasano, affaritaliani.it, 14 maggio 2013
Intervento alla rassegna Filosofia sui Navigli del 21 aprile 2013
L’odio è un concetto poco esplorato, scomodo da pensare, tanto più se riferito a noi stessi, ai bambini e alle funzioni genitoriali/terapeutiche. Ecco perché indagare tali aspetti costituisce, come nota Nielsen (2011), “una sfida per la psicoanalisi”.
Infatti, l’odio risulta spesso impossibile da ammettere come costitutivo della nostra psiche, sebbene, come ha mostrato Freud (1915; Jeammet, 1989; Nielsen, 2011): “L’odio compare con la scoperta dell’oggetto, [con cui è all’inizio tutt’uno: perciò] l’oggetto è scoperto nell’odio. Il fatto di rendersi conto che l’oggetto non è una parte di sé e che, di conseguenza, non è a nostra disposizione, genera, in modo del tutto naturale, l’odio” (Green, 1995, 317-318). Infatti, il bambino deve potersi abituare a tollerare la frustrazione connessa all’altro, come mostra un esempio tratto dall’osservazione di un neonato che dovette essere bruscamente svezzato per la diminuzione della montata lattea della madre. Egli, di fronte alla frustrazione, ricorse per alcuni mesi a un comportamento illusoriamente autosufficiente: spingeva in avanti tra le labbra la lingua arrotolata, in modo da riempirsi la bocca, cosa che otteneva anche spingendosi in fondo alla gola tutt’e due i pollici e succhiandoli avidamente; in entrambi i casi, però, dando comunque l’impressione di restare terribilmente depresso.
A volte però sembrava entrare in contatto con qualcosa e parlava a se stesso con un dialogo che aveva la stessa intonazione di voce della madre quando gli parlava e di lui quando le rispondeva. In queste occasioni, in cui pareva avere un dialogo con la madre interiorizzata, non sembrava più depresso e desisteva dal tentativo di consolarsi con un falso oggetto (Ciccone, Lhopital 1991).
Insomma, dobbiamo lentamente abituarci al fatto che l’altro non è né parte di noi né a nostra disposizione per non dover continuare a odiarlo e a illuderci di poterne fare a meno sviluppando una dipendenza patologica da falsi oggetti sempre a nostra disposizione e, quindi, non frustranti (lingua e pollici per il neonato, oppure sigarette, alcool, eroina, e così via).
Come dice Rosenfeld (1971), gli aspetti distruttivi inconsci possono presentarsi: “mascherati come onnipotentemente benevoli, promettendogli soluzioni rapide per tutti i suoi problemi. Queste false promesse mirano a rendere il sé normale dipendente, anche in modo tossicomanico, dal sé onnipotente, e ad attirare le parti sane normali dentro questa struttura delirante per imprigionarvele.” (268)
Scrive Hinshelwood: “Poco dopo la fine della prima guerra mondiale, Freud (1920) riconobbe […] l’evidenza di un “pozzo profondo” di distruttività, presente negli esseri umani” (1989, 303).
Francesconi e Zighetti (2004) sottolineano l’aspetto “perturbante” della pulsione di morte riferendosi alla considerazione freudiana (1929) secondo la quale “l’uomo non è un creatura mansueta, […] capace al massimo di difendersi quando è attaccata; è vero invece che occorre attribuire al suo corredo pulsionale anche una buona dose di aggressività. Ne segue che egli vede nel prossimo non soltanto un eventuale soccorritore e oggetto sessuale, ma anche un oggetto su cui può sfogare la propria aggressività, sfruttarne la forza lavorativa senza ricompensarlo, abusarne sessualmente senza il suo consenso, sostituirsi a lui nel possesso dei suoi beni, umiliarlo, farlo soffrire, torturarlo e ucciderlo.” (599).
Mi chiedo a tale proposito se non si possa ipotizzare che la difficoltà con cui la psicoanalisi si è occupata dei nostri sentimenti peggiori non “tragga origine dall’incapacità narcisistica di accettarli come un dato di fatto dell’accadere psichico” (Francesconi, Zighetti, 2004, 52).
Io credo di si: infatti, c’è odio ovunque ci sia manifestazione autentica di vita. Ma la sua esistenza in ambiti relazionali idealizzati (tra genitori e figli, tra psicoanalista e pazienti) è bandita.
Eppure, “I bambini sono oggetto dell’odio dei loro genitori e quindi i rapporti tra genitori e figli possono essere soffusi di odio ed essere caratterizzati da difese che evitino la consapevolezza dell’odio e delle sue manifestazioni omicide” (Blum, 1997, 21). Pensiamo, a tale proposito, a quanti miti mettono in scena figlicidi: Agamennone, Clitennestra, Medea, Laio, il padre di Edipo…
Come ha scritto Winnicott, “La madre odia il bambino prima che il bambino odi la madre” (1947, 241).
Altrettanto, i bambini odiano i propri genitori: “Quando il pianto o lo strillare o il sentirsi soffocato dall’ira non impedisce al bambino di articolare le parole, egli pronuncia comuni espressioni verbali dirette di odio” (Blum, 1997, 22).
Nel pensiero di Melanie Klein “L’idea di una pulsione aggressiva, attiva già in tenera età, è motivo ricorrente[…], fino a offrire l’immagine di un bambino in preda a violenti moti sadici” (Fornaro, Stella, 2001, 165): scriveva, nel 1932, la Klein: “E’ un’idea terrificante per non dire incredibile per la nostra mentalità, quella di un bambino dai sei ai dodici mesi, che tenti di distruggere la madre con tutti i mezzi che le sue tendenze sadiche gli mettono a disposizione, con i denti, le unghie, gli escrementi e con tutto il proprio corpo trasformato fantasticamente in ogni sorta di armi letali. Io, per personale esperienza, so quanto sia difficile ammettere che tali idee ripugnanti rispondono a verità.” (Klein, 1932, 184).
Per proseguire vai al link qui sotto
http://www.affaritaliani.it/culturaspettacoli/odio-e-psicoanalisi.html?refresh_ce