Kristeva: “Sms ai lettori italiani. Un viaggio affascinante nella depressione e nella melanconia”

Anticipiamo l’introduzione al nuovo libro della semiologa francese sull’attualità di questo «sole nero». Certi problemi non sono «solubili». Ma ciascuno può aprire la cicatrice delle sue pene e metterle in discussione. L’unica arma che abbiamo per combatterlo è la cultura

di Julia Kristeva, unita.it, 14 settembre 2013

Sole nero. Depressione e melanconia, di Julia Kristeva traduz. Alessandro Serra pagine 215 euro 27,50 Donzelli

Due tesi sostengono questo libro: la prima è che la «melanconia» degli antichi, abbia assunto ai giorni nostri il volto di una malattia riconoscibile: la depressione. La seconda è che quest’ultima, proprio perché sperimenta l’inconsistenza del senso delle cose, sia capace di cambiare il pensiero e le forme artistiche.

VENTISEI ANNI DOPO LA PRIMA EDIZIONE FRANCESE DI SOLEIL NOIR. DÉPRESSION ET MÉLANCOLIE (GALLIMARD, PARIS, 1987), il mio amico e editore Carmine Donzelli mi chiede se ho qualcosa da aggiungere. Io lo ringrazio, e senza deprimermi mi interrogo.
Per la verità, non avevo mai chiuso questo libro. I miei pazienti di oggi hanno una bella voglia di essere iperconnessi dai vari smart-phone e skype: il web non impedisce il suicidio; può capitare al contrario che lo incoraggi. La logica della loro depressione segue le stesse figure alle prese con un «passato che non passa», con una «lingua morta», o con una «Cosa sepolta viva». I disturbi bipolari sono più che mai alla moda, e la bellezza resta immancabilmente l’altra faccia del depresso. Il matrimonio per tutti e le famiglie ricomposte stanno diventando la norma, ma l’amore incorpora sempre il dolore, e la psicoanalisi rimane il solo spazio che la modernità riserva alla sofferenza per ottenere quella forma lucida del perdono che è l’interpretazione. Le conferenze che ho tenuto in Europa, in America o in Asia, le traduzioni in numerose lingue, mi persuadono dell’attualità persistente di questo «sole nero», e io continuo ad affinare la spiegazione che ne propongo a coloro che ne sono scottati. Cosa posso aggiungere ancora, e per di più all’indirizzo del lettore italiano, della lettrice italiana?
Non è dunque senza «paura e tremore» che affido oggi al mare questa bottiglia.
Essendo cambiato, rispetto a un quarto di secolo fa, il ritmo della comunicazione, provo ad arrischiare, in questa introduzione, una contrazione, una sorta di sms al tempo stesso denso e serrato, che la lettura del libro permetterà spero di distendere e sviluppare.
Sì, la depressione e la malinconia sono più che mai le compagne della globalizzazione. Il Prozac, l’Anafranil o il Seroxat hanno invaso l’armadietto dei medicinali di ogni famiglia, e gli antidepressivi sono in grado di regolare efficacemente il flusso nervoso. Tuttavia, con o senza di essi, la vita e la morte della parola si giocano nella caverna sensoriale dei traumi infantili, ed è il transfert sul terapeuta dell’odio indicibile e dell’eccitazione innominabile che fa rinascere il suicida o la suicida: dentro nuovi legami, per realtà da reinventare.
Sì, la sindrome depressiva non è più soltanto un malessere personale. Le nazioni stesse oggi sono depresse, sotto lo choc della crisi endemica e dell’inevitabile austerità. L’Europa stessa è minacciata in prima persona da un malinconico pensionamento, con relativa perdita di identità, di valori e di fierezza. Avevo scritto Contre la dépression nationale (Textuel, Paris 1998), analizzando la Francia tentata già allora dal Fronte nazionale e gettata nel panico dall’ondata degli immigrati. Nation Without Nationalism, suona così la traduzione inglese di un mio lavoro precedente (Columbia University Press, New York 1993). Siamo ancora, e più che mai, a quello stesso punto: perché l’identità è il nostro anti-depressivo sociopolitico, ma perché non si traduca in una fonte di regressioni identitarie, di fronte allo stallo economico politico dell’Europa che ci lascia impotenti, non abbiamo che una sola arma: la cultura. Riguardiamo il Cristo morto di Holbein, rileggiamo El Desdichado di Gérard de Nerval, il carnevale dei Demoni in Dostoevskij, la Malattia della morte secondo Duras… E parliamone: esiste una cultura europea. Cos’è? Ieri, oggi, domani? No, io non sono né depressa né depressiva. Certi lettori me lo chiedono, e approfitto dell’occasione per rispondere. Ho visto la tempesta passarmi vicinissima, e l’ho vista sconfitta dalla persistenza del pensiero, che mia madre (cui ho reso omaggio nel mio La testa senza il corpo, Donzelli, Roma 2010) considerava come il mezzo migliore per spostarsi: da un luogo, da sé, da tutto… Più tardi ho voluto fare compagnia alla sofferenza dei malati all’Hôpital de la Salpetrière a Parigi, ma anche immergermi nelle «idee», di cui Marcel Proust scrive che sono «i succedanei dei dolori». Non sono lontana dal pensare, con Aristotele e Heidegger, che la malinconia è coestensiva all’inquietudine dell’uomo nell’Essere.
E poi ho esplorato il genio femminile. E ho aggiunto l’erotismo della reliance materna (cfr. il mio Pulsions du temps, Fayard, Paris 2013); e oggi penso, con Colette, che «rinascere non è mai superiore alle nostre forze». Può darsi che sia più facile a dirsi che a farsi, se siete una donna che ha analizzato le sue ferite e i suoi limiti, i suoi bisogni di credere e i suoi desideri di sapere. E preferisco di gran lunga l’éclosion della natura, degli altri e di sé, piuttosto che compiangersi nel mal-être alla faccia della «tribù malinconica dei filosofi», di cui rideva Hannah Arendt.
«La malinconia non è francese», mi avevano detto all’epoca dei critici che pensavano a Rabelais, a Sade, alla Rivoluzione, e nascondevano le loro lacrime, degne al massimo di brume tedesche o nordiche. È italiana, la malinconia? Sì o no? Amo il blu di Giotto, la Santa Teresa di Bernini, le estasi del Tiepolo, la voce di Cecilia Bartoli… Il mondo intero viene da voi a fare il turista per dimenticare la propria miseria e per divertirsi; e la barocca Venezia non fu essa stessa eretta come culto della malinconia? L’Italia dunque come negazione delle realtà dolorose? O piuttosto come scrigno globalizzato della depressione nazionale, inmancanza di alternativa, in assenza di avvenire? Oppure chissà in anticipo sul désêtre mondiale, e pronta ad analizzare, a rivoltarsi, a rinascere?
Mi piacerebbe che quelli che leggeranno questo libro potessero ritrovarvisi. Non propongo soluzioni. Per la prima volta nella storia, dopo tante guerre, tanti crimini, tante speranze più o meno rivoluzionarie o paradisiache, stiamo capendo che i problemi essenziali non sono «solubili». Ma che ciascuno, ciascuna, può aprire la cicatrice o la piaga delle sue pene, per metterle in questione e cominciare a spiegarle. Il mio augurio è che voi possiate farlo, leggendo queste traversate di «soli neri» che io ho cercato di accompagnare nelle pagine che seguono. E che possiate chiudere questo libro, avendo conquistato qualche lampo, per innescare delle nuove possibilità da dischiudere.

CHI È – Da Genio femminile a Storie d’amore. Julia Kristeva insegna Linguistica e Semiologia all’Università di Parigi. Esponente di spicco della corrente strutturalista francese, ha concentrato i suoi interessi attorno ai temi della psicoanalisi. Di Kristeva, Donzelli ha pubblicato, oltre alla trilogia sul Genio femminile (Colette, 2004; Hannah Arendt, 2005; Melanie Klein, 2006, ripubblicati in cofanetto nel 2010), Bisogno di credere (2006), Teresa mon amour (2008), La testa senza il corpo (2009), Il loro sguardo buca le nostre ombre, con Jean Vanier (2011), Storie d’amore (2012). E da oggi è in libreria Sole nero.

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