di Felice Cimatti, il manifesto – Alias, 20 ottobre 2013
Sono appena stati tradotti e pubblicati in italiano gli Altri scritti di Jacques Lacan (Einaudi, pp. 624, 34 euro), un libro importante, forse ancora più degli Ècrits del 1966, perché mentre la stagione dello strutturalismo è passata, quella della psicoanalisi, forse, è ancora di là da venire. La psicoanalisi di cui leggiamo in questi Altri scritti è interessata al reale, al campo dell’esperienza che si colloca oltre e dopo il linguaggio. In questo senso la nozione, forse più sorprendente e enigmatica, di questi lavori è quella di «inconscio reale», che supera quella ormai tradizionale e un po’ usurata dell’inconscio «strutturato come un linguaggio». Se dalla finanza ai social networks tutto ci dice che è quello del reale il problema del nostro tempo, la psicoanalisi lacaniana è un compagno di strada che stavano aspettando. Ne parliamo con Antonio Di Ciaccia, uno dei più eminenti psicoanalisti italiani, analizzato da Lacan, e traduttore di questi scritti e dei Seminari.
Come le è stato possibile tradurre Lacan?
Per molto tempo il testo di Lacan, e quello della redazione dei suoi Seminari per mano di J.-A. Miller, è stato trattato come un testo sacro, immutabile. A un certo momento mi sono accorto che per Lacan un testo più è sacro più è interpretabile, ossia richiede al lettore non tanto una traduzione sulla carta ma una traduzione sulla carne. Bisogna far rivivere il testo e farlo pulsare. Evidentemente questo comporta che il testo rimane aperto ad altre letture, che sicuramente verranno e che saranno ampiamente giustificate. Da parte mia, nella traduzione ho cercato d affidarmi a un corrimano che guidasse i miei passi incerti, e l’ho trovato in quello straordinario insegnamento sull’opera di Lacan che Jacques-Alain Miller svolge ormai da più di trent’anni. Sulla traduzione, Lacan aveva una prospettiva tutta sua. In un seminario (nel Rovescio della psicoanalisi) si lamentò di come fosse tradotto: non intendeva da una lingua a un’altra, ma da un discorso a un altro. Tutti sanno che la psicoanalisi non consiste nei libri che ne parlano poiché essa si veicola essenzialmente in una nuova posizione etica del soggetto.
È evidente che a Lacan non importa nulla di «comunicare» qualcosa: vuole rendere la vita difficile al suo lettore. Posto che in questione non è solo lo stile, le domando: quanto è necessario questo stile a Lacan?
Lo stile di Lacan è il modo personale in cui ha incarnato, nel suo lavoro e nelle sua opera, e direi anche nella sua vita, il desiderio dell’analista. È uno stile singolare che non invita a nessuna imitazione. Mi viene in mente la sua frase: «Fate come me, non imitatemi». Ossia, il nucleo essenziale del suo stile può trovarsi solo nel travaglio individuale che intreccia costantemente le esigenze della struttura dell’inconscio con la propria questione soggettiva. In altri termini lo stile è l’etica in atto.
«Non sono un poeta», scrive di sé Lacan, «sono un poema». Questa raccolta permette di seguire passo passo come Lacan arrivi a costruire la sua voce, affatto inconfondibile e unica…
Lei chiama «voce» ciò che Lacan chiama «stile». Come Lacan è stato un poema del suo inconscio, così ognuno ha il compito di essere poema del suo inconscio.
Estrema oscurità ma anche massima chiarezza: leggere Lacan comporta una continua oscillazione fra questi due stati d’animo. Cos’è che li lega?
Lacan considerava di essere riuscito, unico a suo dire, a rendere il proprio discorso isomorfo all’inconscio. Per questo esso è caratterizzato dall’estrema oscurità e dalla massima chiarezza, proprio come si presenta a noi il nostro inconscio, per esempio, attraverso le sue formazioni, in primo luogo i nostri sintomi.
Anche chi non sa nulla di Lacan avrà sentito le sue parole «l’inconscio è strutturato come un linguaggio». Qui prevale ancora lo strutturalista, il saussuriano. Ma leggendo questi Altri scritti ci si accorgerà che da un certo punto in poi Lacan cambia idea…
Il Lacan degli Altri scritti mette in primo piano il rapporto tra l’inconscio e il godimento. Certo, il godimento vuol dire il risultato del fatto che l’essere umano è attraversato, nel bene e nel male, dalla pulsione. Ma la pulsione di per sé è muta, si dice attraverso il significante. La grande intuizione di Lacan è stata quella di mettere in primo piano il modo che ha l’inconscio di funzionare. A questo risponde l’aforisma «l’inconscio è strutturato come un linguaggio»: vuol dire che l’inconscio è come una rete, la cui logica è precisa, anche se non è quella del nostro io cosciente. Nella rete è veicolato il godimento, con le sue varie sfaccettature, che ci fanno gioire e che ci fanno soffrire. Per utilizzare una metafora a cui del resto accenna Lacan stesso, la rete è come quella del mercato, della finanza: occorre che funzioni, e in un certo determinato modo. Ma a circolare è il denaro, fonte di gioia per certuni e di disperazione per altri. Con la psicoanalisi l’essere umano arriva a saperne di più della sua propria rete e del modo in cui, inconsciamente, se ne serve.
Un’altra scoperta di questi Altri scritti è che Lacan, molto prima della svolta realista di questi ultimi anni, non fa che parlare di reale, e di come raggiungerlo. Che cos’è per lui il reale?
Ovvio che il reale non è la realtà. In parole povere: il reale è quella cosa oscura che incontri e che si impone nella tua vita e che a volte chiamiamo trauma oppure eccelso piacere. Un orrido trauma o un piacere raffinato si iscrivono nel tuo corpo e nella tua mente con lo stigma dell’insopportabilità: questo insopportabile è il tuo reale.
In particolare, in uno scritto del 1976, Lacan parla di «inconscio reale». Di che si tratta?
Sinteticamente direi così: l’inconscio, in quanto interamente riconducibile a un sapere, è suscettibile di essere interpretato. È questo che viene chiamato l’inconscio transferale. Eppure c’è qualcosa che sfugge al senso e quindi dà scacco all’interpretazione: è questo che egli chiama «inconscio reale». Anche altri analisti lo avevano intravisto, ma le indicazioni di Lacan aprono a prospettive inattese, che riguardano, per esempio, il rapporto tra il sapere e il reale, ma anche il rapporto tra il desiderio e l’amore.
Qual è il valore della figura di James Joyce nell’ultimo insegnamento di Lacan?
Dante ha avuto il suo Virgilio, Lacan si è scelto Joyce per condurlo là dove Freud non era riuscito ad andare.
Per chiudere una domanda politica: Lacan, e la sua psicoanalisi, parteggiano per una ratifica dell’esistente o per un cambiamento radicale? La psicoanalisi è un rimedio consolatorio per atei che hanno paura di morire, oppure è la molla che fa scattare la ribellione?
Lacan non crede alle rivoluzioni, perché porterebbero nuovi padroni a comportarsi come o peggio dei vecchi. Tutto sommato, pensa che la sola sovversione degna di fregiarsi del titolo di rivoluzione è quella che ebbe luogo in Occidente alla fine del medioevo e che preannuncia il rinascimento: parlo dell’amore cortese. Secondo Lacan è stato stupefacente il fatto che a un certo momento della nostra storia la donna, da puro oggetto di scambio, venisse elevata alla dignità di oggetto del desiderio: è un capovolgimento che ha permeato tutta la nostra civiltà. Lacan si è interessato, anche, sebbene a tratti, del fenomeno del capitalismo. Egli riconosce a Marx di avere intuito, meglio di Freud, il sintomo analitico, e di avere disseminato nella vita di ogni contemporaneo la questione del plusvalore, il quale in realtà non si sostiene se non sulla base del plusgodere. Il capitalismo è una cosa seria, dice Lacan. Ma i suoi oggetti sono tutti fasulli. E l’uscita dal capitalismo non sarà prossima. Una pista da seguire? Puntare a diventare dei santi atei (ossia senza l’Altro, comunque si vesta questo Altro) e dotarsi di una gran voglia di ridere. Sarebbe un buon programma per gli psicoanalisti.
https://www.facebook.com/pages/La-psicanalisi-di-J-Lacan/179273612104049?fref=ts
Vedi anche:
https://rassegnaflp.wordpress.com/2013/10/08/altri-scritti-di-jacques-lacan/