Dopo il lungo successo dell’intelligenza emotiva e gli appelli di Obama, psicologi e filosofi ora scoprono che immedesimarsi negli altri non è la base della democrazia. Anzi, il più nobile dei sentimenti individuali sarebbe un ostacolo per il benessere collettivo
di Massimo Recalcati, la Repubblica, 5 ottobre 2014*
Lo psicologo di Yale Paul Bloom ha recentemente gettato un secchio di acqua fredda sugli entusiasmi di Barack Obama relativi alle virtù dell’empatia. L’espressione «deficit di empatia» è circolata frequentemente nella retorica efficace del presidente degli Stati Uniti. Una carenza di empatia renderebbe leggibili fenomeni sociali complessi e spiegherebbe le difficoltà a vivere positivamente le relazioni intersoggettive. L’empatia è la capacità di una persona di comprendere e di far risuonare dentro di sé i pensieri e i processi psichici di un’altra persona. Più radicalmente comporta l’unione o la fusione emotiva tra esseri umani. Davvero, si chiede criticamente Bloom, può essere considerata come una delle forme più evolute del legame sociale? Sentire quello che il mio simile sente, condividere i suoi stati emotivi, sentirsi all’unisono è davvero la forma più positiva che può assumere la relazione con l’altro? Una giusta dose di empatia è necessaria in qualunque legame umano. Tuttavia è assai difficile immaginare che un chirurgo possa operare una persona a lui molto cara: la freddezza necessaria al proprio mestiere sarebbe ostacolata dall’intensità del legame affettivo con il paziente. Un eccesso di empatia sopprimerebbe quella quota necessaria di distanza affettiva che si impone nella pratica chirurgica. Questa freddezza non deve essere letta però come una semplice indifferenza nei confronti delle sorti del malato, quanto piuttosto come un modo per fare esistere una differenza necessaria. È quello che viene meno, per restare all’esempio della chirurgia, nella vicenda atroce della morte del padre di Gustave Flaubert nella ricostruzione proposta ne L’idiota della famiglia da Jean-Paul Sartre. Celebre e blasonato chirurgo, intellettuale carismatico, Achille Flaubert avrebbe incaricato il figlio primogenito — al quale aveva attribuito il suo stesso nome proprio come se fosse una brutta fotocopia — il compito di eseguire una semplice operazione sul suo corpo. Risultato: durante l’intervento il padre muore ucciso dal figlio. La trasmissione dell’eredità drammaticamente fallisce per un eccesso di immedesimazione empatica? Trasfusione dei poteri, clonazione dell’uno nell’altro, assenza di distanza, parricidio truccato da imperizia; l’esigenza della differenza collassa e lascia il posto ad una successione per identificazione integrale, ad una empatia assoluta.
Nel nostro tempo l’empatia come dose necessaria a rendere affettivamente calda una relazione tra persone si è trasformata in un’ideologia che vorrebbe rendere l’altro trasparente, simile a noi, omogeneo (vedi il recente Empathy di Roman Krznaric, citato da Bloom). Si tratta di una missione impossibile: una linea insuperabile ci separa sempre dall’altro. Pensare di costruire un legame o una comunità sull’empatia è illudersi di superare quella linea. Piuttosto un legame o una comunità degna di questo nome dovrebbe tener conto di quella linea e rinunciare ai sogni (totalitari) di assimilazione delle differenze. La democrazia è, in questo senso, anti-empatica per definizione: le differenze non sono abolite ma valorizzate, messe in relazione senza pretendere di dissolverle in una falsa omogeneità. In gradazioni diverse l’esigenza di preservare la differenza da un’empatia eccessiva ispira tutti i legami autenticamente generativi. Non si tratta evidentemente della freddezza necessaria del chirurgo — che sarebbe altamente patologica nella vita comune — ma di quella quota necessaria di solitudine che accompagna inevitabilmente ogni gesto di responsabilità. Per questa ragione Heidegger diceva che si muore sempre da soli, il che non significa affatto che si debba morire abbandonati dall’altro o senza partecipazione emotiva.
Pensiamo alla relazione tra genitori e figli. Sappiamo bene come un eccesso di prossimità rischi di assorbire quel margine di libertà da cui scaturisce la dimensione singolare della vita. È quello che ci insegnano le bugie dei bambini. La loro importanza nello sviluppo psichico non va sottovalutata. Mentire è una prima prova necessaria di libertà: il bambino deve poter custodire i propri segreti senza che nessun altro possa spiarli, deve poter verificare che nessuno possa leggere i suoi pensieri. Un eccesso di empatia nella relazione tra genitori e figli può alimentare invece l’illusione dannosa dell’indifferenziazione come segnala in modo drammatico la morte del padre di Flaubert. Per questo è sempre bene non capire sino in fondo i propri figli, non venire mai a capo del mistero della loro esistenza. I bambini hanno bisogno di non essere mai capiti del tutto, di essere almeno un po’ incompresi. Non sono forse i genitori che presumono di conoscere i propri figli sino all’ultimo capello i più sorpresi di fronte a certe loro scelte o gesti estremi?
Questa esigenza di oscurità, come si sarebbe espresso Nietzsche, non è al fondo di ogni rispetto autenticamente altruistico? L’elogio sperticato dell’empatia come capacità di immedesimazione all’altro, vorrebbe invece attenuare la solitudine della nostra singolarità rendendoci tutti più simili. La psicoanalisi insegna sempre a sospettare della spinta a renderci uguali, a cancellare le differenze soggettive. Non a caso Lacan ha fatto della critica all’empatia un motivo costante del suo insegnamento. Abbiamo non a caso conosciuto l’attitudine empatica di tutti i grandi leader totalitari e populisti nel sentirsi all’unisono con la pancia del loro popolo. Anche il genitore che pensa di sapere tutto di suo figlio perché è come lui, perché risuona in lui empaticamente, non sa lasciare spazio alla differenza. L’empatia rischia di trasformare la relazione tra due soggetti differenti in una relazione speculare tra simili. Ma è proprio con chi riteniamo più simile a noi e non con l’altro diverso che diamo il peggio di noi stessi. È il caso dell’invidia che già Aristotele faceva notare essere un sentimento che non proviamo per chi appartiene ad un mondo troppo diverso dal nostro, ma solo verso chi ci è più prossimo. Anche l’ostilità verso l’accoglienza dei disperati che sbarcano sulle nostre coste scaturisce da un processo di identificazione proiettiva: sono poveri, affamati come ciascuno di noi è o teme di diventare.
Possiamo chiederci: quali sono i legami che sanno durare creativamente nel tempo? Quelli che sanno preservare la differenza come dato inassimilabile, quelli nei quali l’altro resta l’altro, ad una distanza sufficiente per impedire quella “intimità alienata” che Adorno vedeva riflettersi impietosamente nella canottiera bianca del padre-marito sdraiato sul divano. Saper stare generativamente in un legame significa anche saperne stare sempre parzialmente fuori, permanere oscuro a se stesso. Lo sappiamo: i legami più fecondi e duraturi sono quelli che si fondano sulla capacità di stare da soli. È questa l’essenza non-empatica dell’altruismo. Altrimenti la comunità stessa rischia di scivolare verso l’identificazione totalitaria alla massa. La violenza può essere letta come il sintomo estremo dell’illusione empatica: se capisco tutto dell’altro, se mi identifico a lui, se condivido tutto con lui, se nessuno dei suoi processi psichici mi è oscuro, cade quella differenza e quel rispetto per la sua lingua straniera che solo rende possibile un legame nutrito di rispetto. Sapere tutto dell’altro, dissolvere il suo mistero in una trasparenza senza resti, finisce per cancellare la bellezza del mistero dell’alterità. Un incontro non avviene mai allo specchio. Ogni volta che accade davvero noi facciamo esperienza di ciò che ci sfugge, di ciò che non arriviamo mai del tutto a comprendere.
* Segnalato iniziativaica.it e da boulzan.com
http://www.iniziativalaica.it/?p=21827
http://boulzan.com/2014/10/05/recalcati-critica-della-ragion-empatica/
Ma come? Abbiamo imparato come l’empatia si differenzi totalmente dalla simbiosi! Almeno così mi pareva.
Certo. É Recalcati che finge di non conoscere la differenza tra unipatia e empatia. Oppure é ignorante e le lezioni di fenomenologia le ha perse. Oppure e più semplicemente non sta bene.
Leggi PSICOLOGIA DELLE MASSE E ANALISI DELL’IO Freud (1921). Nel settimo capitolo Freud dice:<>. In nota:<>. Freud ne parla in riferimento al fenomeno del contagio psichico o, per usare le sue parole, “infezione psichica”.
io avevo tutta un’altra idea dell’empatia… pensavo fosse un mettersi nei panni dell’altro non per identificarsi con l’altro e assimilarlo a sé, ma per comprenderlo nella sua diversità da se stessi…
chiarisco… nella sua diversità da me…
Però Prof,non è proprio così ..diciamo che la psicanalisi è stata per molto tempo in mano a degli specialisti che non incrociavano lo sguardo con i propri pazienti poi si è inteso anche in chiave metodologica riconoscere il valore del rispecchiamento (io ti vedo così e ti mi vedi dal tuo punto di vista) non dico che i ruoli si sono sovrapposti ma la psicoterapia ha accresciuto la consapevolezza della propria mission nel rispetto del cliente, in una relazione dialettica
Grazie per il commento. Può contattare l’autore dell’articolo alla sua pagina Facebook o al suo sito personale http://www.massimorecalcati.it (L. R.)
Quante sciocchezze in questo “saggio”.
Tanto per cominciare non è affatto chiaro, nell’articolo, quanto sia di Bloom e quanto del Recalcati. Per dire dell’approssimazione scientifica e professionale.
Soprattutto quanta malafede linguistica nello svolgimento del testo e del “ragionamento”.
Lo scivolamento del significato di empatia, che a gradoni ampi diventa nello scritto, via via, “assimilazione delle differenze”, “falsa omogeneità”, “negazione della solitudine”, trasforma magicamente questo concetto in una categoria mostruosa, addirittura antidemocratica, illiberale psichicamente dannosa.
Il tutto condito da ovvietà e banalità, tirate su di tono da citazioni a capocchia di NIetzsche, Heidegger, Adorno e Lacan (giusto per dare due colpi al cerchio e due alla botte)
Povera signora Empatia, se avesse saputo che sarebbe andata ad infilarsi in cotanto vespaio, non avrebbe parlato nell’orecchio a Obama.
Oh signor Recalcati, meno male che ci ha pensato lei – e/o mister Bloom – a rimettere le cose a posto.
Poi, come dice lei: “una giusta dose di empatia è necessaria in qualunque legame umano”.
Ma lei di tutto ha parlato fuorché della “dose sbagliata”!
Una demolizione confusa e appiccicaticcia non potrà mai portare nemmeno ad alcun corretto uso.
Quando si sbagliano le premesse è davvero complicato centrare qualsivoglia obbiettivo.
Cordialmente
Mimmo Cortese
Buongiorno, può contattare l’autore attraverso la sua pagina Facebook o il suo sito: http://www.massimorecalcati.it (L. R.)
Grazie, è possibile contattare l’autore attraverso la sua pagina Facebook o il suo sito: http://www.massimorecalcati.it (L. R.)
Caro Prof. Recalcati,
il suo intervento è come al solito interessante e scritto bene. Ricco di fascino e di certo stimolante. Tuttavia, il problema serio nella sua interpretazione è la condivisione di un assunto filosofico implicito nella teoria lacaniana, erede a sua volta di una metafisica di pensiero che contrappone l’Uno al Due, l’Essere al suo Altro. Lei sostanzialmente adotta una linea di chiara matrice filosofica per l’interpretazione dell’empatia, riconducendo il problema della differenza ad una contrapposizione binaria tra l’Uno e l’Altro, per la quale ogni elemento interno di mediazione, in tal caso l’empatia, è di per sé sufficiente a dichiarare la perdita di ogni forma di alterità. Per questo, come suggerisce Mimmo Cortese nel precedente intervento, non preoccupandosi minimamente di trovare una metodologia o una giustificazione per gli accostamenti semantici da Lei impiegati (falsa omogeneità, assimilazione delle differenze, ecc.) ma appunto, basandosi essenzialmente su una sorta di continuità metafisica dei concetti (dialettica senza sintesi? differenza senza concetto? destino dell’essere?) ha potuto ricondurre l’empatia ad una categoria totalizzante del pensiero (il pensiero d’occidente è totalizzante, l’empatia è un suo prodotto, quindi l’empatia è totalizzante). Ora va bene essere lacaniani e quindi accettare degli impliciti presupposti metodologici (l’argomentare per analogie, suggestioni, metafore e metonimie, ecc, in sintesi accettare la teoria linguistica di De Saussurre, per lo meno come punto di partenza; e perchè poi?), ma non crede, forse, che sarebbe il caso di provare a guardare a quegli stessi concetti filosofici da un punto di vista non tradizionalmente filosofico ma, per così dire, singolare-performativo? Non ritiene in altre parole, più sensato o certamente più concreto, porre attenzione all’uso del termine “empatia” nella pratica scientifica e sociale, nella dinamica dell’interazione in cui essa può essere sottoposta al vaglio e alla misura, alla mediazione o all’inganno, all’utilizzo come strumento di interpretazione o di potere, di comprensione o di totalizzazione – per fare solo alcuni esempi – piuttosto che continuare a vedere in essa, in maniera generica e, mi permetta, teoreticamente un po’ banale, una ed una sola connotazione semantica, e cioè quella che riduce l’Altro all’Identico, la Differenza al Medesimo?
Cordialmente,
Marco Gigante
L’ha ribloggato su InDialogoe ha commentato:
Un articolo di Recalcati su cui bisogna riflettere come genitori, educatori ma anche cittadini che desiderano preservare la democrazia.