Uomini che odiano il mistero delle donne
di Massimo Recalcati, la Repubblica, 25 novembre 2014
La conta degli stupri, dei maltrattamenti, degli omicidi di cui sono vittime le donne lascia sempre sgomenti. Tutta questa violenza brutale ha una chiara matrice razzista. Soprattutto se interpretiamo il razzismo, come ci invitava a fare Lacan, come odio irriducibile nei confronti della libertà dell’Altro. La donna, infatti, è una delle incarnazioni più forti, anarchiche, erratiche, impossibile da misurare e da governare, di questa libertà. Il suo stesso sesso non è visibile, sfugge alla rappresentazione, è nascosto, si sottrae alla presa dell’evidenza. La loro identità, difficile da decifrare, non risponde mai a quella della divisa fallica degli uomini. Proprio per questo le donne possono essere l’oggetto di una violenza inaudita.
Possono essere aggredite, offese, maltrattate, uccise proprio perché sfuggono ad ogni tentativo di possesso, perché coincidono con la libertà. L’uomo può rispondere a questa coincidenza con l’arroganza razzista e insopportabile della sopraffazione provando in tutti i modi a cancellarla.
È un disegno fallimentare che costringe ad una iterazione disperata. Invece di scegliere la via dell’amore per la differenza prende quella dell’odio rabbioso e sterilmente rivendicativo (“sei mia!”). L’esercizio della violenza è sempre una alternativa secca a quella della parola. Mentre la legge della parola prova sempre a rendere giustizia della libertà dell’altro, la violenza la vorrebbe sopprimere, calpestarla, ridurla al silenzio. È innanzitutto una battaglia culturale che dovremmo cominciare magari ripensando seriamente a quello che usiamo chiamare “educazione sessuale”. Questa educazione non è forse innanzitutto — essenzialmente — una educazione alla legge della parola? Non dovremmo imparare dai poeti più che dalle slide che classificano scientificamente i sessi mostrando il funzionamento oggettivo dei loro organi? È davvero tutta lì quella che chiamiamo differenza sessuale? È davvero quello il mistero dell’amore?
La battaglia culturale contro la violenza di genere non può non passare da un ripensamento dell’educazione sessuale come educazione della sessualità al mistero dell’amore. Non dovremmo inseguire l’ideale di una sessualità normale — che la psicoanalisi ha dichiarato non esistere — ma valorizzare l’incontro tra i sessi — a prescindere dalla loro anatomia — come un incontro tra differenze. Dovremmo pensare che l’educazione alla sessualità implichi sempre una educazione al rispetto dell’alterità. Dovremmo pensare che essa sia una educazione al discorso amoroso. La domanda d’amore che muove l’uno verso l’altro, non deve mai essere scambiata con il sopruso che annienta la libertà, ma come un dono di libertà. Non è questa la forma più alta e intensa dell’amore, quando c’è? Amare la libertà dell’altro, amare la sua differenza inassimilabile di cui la donna è il simbolo. Per questo Lacan affermava che si ama, quando si ama, sempre e solo una donna. Per questa ragione amare — dovremmo sempre aggiungere — contempla il rischio della caduta e dell’abbandono. È sempre una esposizione rischiosa all’altro che ci rende tutti più indifesi e più femminili. Ci esponiamo senza riserve alla libertà dell’altro che ha sempre, in ogni momento, il diritto di scegliere se rinnovare o interrompere il patto che ci unisce. Ed è, come sappiamo, di fronte a questo diritto del discorso amoroso che la violenza dei maschi può scagliarsi come una freccia avvelenata contro il corpo delle donne.
Colpire, sfregiare, mutilare, straziare per ribadire una proprietà che non esiste. Per coloro che vivono senza educazione alla legge della parola la libertà della donna non è sopportabile se non è imprigionata. Nemmeno per le donne è facile abitare quella alterità che esse portano con sé. Per questa ragione Freud sosteneva che il “rifiuto della femminilità” non riguardasse solo gli uomini, ma attraversasse anche le donne. Non è proprio questa difficoltà che talvolta può consegnare una donna nelle braccia di chi la umilia, la offende, la violenta, la uccide? La donna che rifiuta inconsciamente la propria femminilità può credere che si possa essere una donna solo consegnandosi passivamente ad un uomo, magari seguendo l’esempio sacrificale delle proprie madri. È però del tutto evidente che si tratta di una atroce illusione. Nessun uomo sa cosa sia una donna. Ecco allora consumarsi il terribile equivoco: lei si consegna nelle mani dell’uomo per essere una donna, ma si ritrova ad essere ridotta a corpo-cosa, corpo-strumento, a “roba”, come direbbe il Mastro Don Gesualdo di Verga. È una lezione disturbante che l’esperienza clinica può confermare. La violenza porta con sé una seduzione silente che in alcune donne può nutrire l’illusione fatale che avere un padrone possa sollevarle dal difficile compito di abitare la libertà radicale della femminilità. Ma tutto questo non deve scaricare in nessun modo sulle donne la responsabilità che grava solo su coloro che scelgono la via della violenza al posto di quella della parola. Questa scelta è sempre colpevole. Preferisce il dominio cieco al rischio dell’esposizione, l’affermazione autarchica del proprio Io al suo decentramento, la potenza narcisistica del fallo (sempre un po’ idiota, secondo Lacan) all’incontro con l’alterità di un corpo, come quello femminile, fatto di segreti. Se l’amore è sempre un salto nel vuoto è perché esso implica la rinuncia a rendere l’altro una nostra proprietà, la rinuncia alla violenza come soluzione (impossibile) del problema della libertà.
Uomo e donna: radicale alterità o multiforme pluralità?
di Chiara Saraceno, blog-micromega.blogautore.espresso.repubblica.it, 26 novembre 2014
Ho letto con un certo sgomento quanto Recalcati ha scritto su Repubblica per condannare la violenza che troppi uomini praticano contro le donne. Equiparandola ad una forma di razzismo intesa come negazione della libertà dell’Altro, Recalcati scrive: “La donna, infatti, è una delle incarnazioni più forti, anarchiche, erratiche, impossibile da misurare e da governare, di questa libertà. Il suo stesso sesso non è visibile, sfugge alla rappresentazione, è nascosto, si sottrae alla presa dell’evidenza. La loro identità, difficile da decifrare, non risponde mai a quella della divisa fallica degli uomini. Proprio per questo le donne possono essere l’oggetto di una violenza inaudita. Possono essere aggredite, offese, maltrattate, uccise proprio perché sfuggono ad ogni tentativo di possesso, perché coincidono con la libertà”.
Che cosa mi sgomenta e disturba in queste affermazioni? La definizione unidirezionale “della donna” (assoluto singolare) come Altro. Come se anche l’uomo maschio non fosse Altro per la donna, ovvero come se l’essere umano non fosse costituito da questo dualismo, simmetrico e insieme innervato da una pluralità di differenze che rompono quei due singolari assoluti e quella maiuscola. Perché mai l’identità delle donne dovrebbe essere più difficile da decifrare di quella degli uomini? Solo un punto di vista che pone, per quanto criticamente, il maschile insieme come assoluto singolare e come metro di giudizio, può considerare le donne l’Altro assoluto, misterioso, inconoscibile (perfino alle donne stesse), irrapresentabile.
Ha ragione Recalcati a dire che non basta l’educazione sessuale intesa come informazione sugli apparati genitali di uomini e donne, a far maturare rapporti tra uomini e donne meno esposti al rischio di violenza e sopraffazione. Che occorre anche un’educazione sentimentale, che favorisca il riconoscimento dell’irriducibilità dell’altro/a (con la minuscola, però) a sé e della sua libertà. Ci mancherebbe. Ma non è utile neppure un’ipostatizzazione misterica della donna come Altro dall’uomo (oltretutto senza reciprocità).
Quando non suscita in uomini intellettualmente sofisticati riflessioni suggestive come quelle di Recalcati, una simile ipostatizzazione rischia di provocare negli uomini non solo o tanto paura, ma disprezzo, senso di superiorità, svalorizzazione delle donne e di quanto fanno o aspirano a fare, autorizzazione al desiderio di possesso, violazione della libertà, fino alla violenza. Dall’Altra irridicibilmente diversa, cristallizzata nella sua differenza, e perciò in conoscibile, all’altra inferiore e perciò utilizzabile a piacere, il passo è molto breve.
Se si vuole operare contro la violenza forse è più opportuno togliere maiuscole, introdurre il plurale, e ragionare sul fatto che l’alterità è condizione normale nelle relazioni tra esseri umani, una condizione che mobilita sia l’uguaglianza nell’aspettativa reciproca di riconoscimento e rispetto, sia la conoscenza, per quanto sempre imperfetta, parziale, in progress – proprio come le identità.
http://blog-micromega.blogautore.espresso.repubblica.it/2014/11/26/chiara-saraceno-uomo-e-donna-radicale-alterita-o-multiforme-pluralita
“Il mistero delle donne”
di Giacomo B. Contri, giacomocontri.it, 26 novembre 2014
E’ il titolo di un articolo apparso ieri su Repubblica:
oh Schwȁrmerei regressiva del III Millennio!
Ho già parlato della regressione come del solo progresso che resti:
non si tratta di regresso, bensì di riedizione non del vecchio ma di ciò che già non andava nel vecchio.
Mistero, profondità, interiorità… delle donne
di Giacomo B. Contri, giacomocontri.it, 27 novembre 2014
Supplemento all’articolo di ieri.
Mistero, profondità, interiorità, attributi femminili degni di Sanremo insieme ad altri:
una Sanremo misogina, promoveatur ut amoveatur.
Invento:
“Tantum vagina potuit suadere malorum”.
So bene che Lucrezio (De rerum natura I, 101) scrive “religio” e non “vagina”- a proposito del femminicidio di Ifigenia -, ma lascio agli esploratori dello spirito l’indagine sul nesso tra religio evagina:
un nesso enorme nella storia e oggi, e che sarebbe comico se non fosse brutale.
Freud ha già indicato la strada con le sue osservazioni sulla [Teoria della] mancanza femminile, a sua volta connessa con la Teoria religiosa della mancanza umana, a sua volta connessa con la Teoria della mancanza materna, che fa della madre una santa donna (ovviamente dolorosa) e del padre un cretino assente:
figli in pericolo.
http://www.giacomocontri.it/BLOG/2014/2014-11/2014-11-27-BLOG_mistero_profondinteriorita_donna.htm
Femminicidio greco e biblico
di Giacomo B. Contri, giacomocontri.it, 28 novembre 2014
Non mi consta osservata (ma qualcuno lo avrà pur fatto) l’identità tra i femminicidi perpetrati sulla figlia da Agamennone e da Jefte , “Giudice” di Israele (Giudici 8, Jefte).
Ambedue sono presentati sotto la categoria del “sacrificio” per propiziare l’esito della guerra, ambedue cari papà “naturalmente” addolorati di dover fare il loro sporco dovere sulla cara figliola in nome della divinità.
Jefte è solo un gran bastardo come Agamennone.
http://www.giacomocontri.it/BLOG/2014/2014-11/2014-11-28-BLOG_femminicidio_greco_biblico.htm