Dentro o fuori l’era del “guardate tutti che cosa ho fatto!”
di Nicholas Barrett, techzilla.it, 21 gennaio 2015
Stuffication è un libro sulla responsabilità derivante dal possesso dei beni di consumo. L’autore, James Wallman, esamina la storia e il crepuscolo – ormai imminente – dell’era del possesso prima di andare alla ricerca di un’alternativa.
La fine del capitalismo?
Dopo la seconda guerra mondiale, il mondo occidentale si trovò a vivere in un periodo di prosperità senza precedenti. In America ciascun bambino poteva disporre in media di 10.000 dollari in più dei propri genitori; per la prima volta, quasi tutti potevano realisticamente sognare di possedere quasi tutto ciò che volevano. Un’intera generazione trovò un nuovo tipo di libertà in una montagna di beni di consumo che i loro predecessori non potevano nemmeno immaginare.
SIAMO OSSESSIONATI DALL’IDEA DI PERSONA CHE AVREMMO VOLUTO DIVENTARE
Molti di noi, argomenta Phillips, sono larve prese in giro dal fantasma del loro potenziale. Un spettro invulnerabile che ci trascina in un vortice di cose su cui non abbiamo mai messo le mani. Le scuole, i partners, la carriera, il tenore di vita.. Non c’è molto di nuovo qui. Questa sensazione è vecchia quanto il mondo e nessun successo sembra in grado di porvi rimedio. Anche William Shakespeare, nel suo sonetto 29, mostra un fremito inquieto nei confronti dell’uomo che sa di non essere. Bramando l’arte ed il potere di questo essere superiore si ritrovò a sentirsi un reietto, così come emerge da una poesia che mantiene il suo potere 400 anni dopo la sua pubblicazione.
“E guardando dentro me stesso maledico
la mia sorte,desiderando di essere come
chi è più ricco di speranze, di
bellezza e di amici,o ancora
invidiando al prossimo con taluno
la sua arte, o ad altri il loro
potere, sempre insoddisfatto di ciò
che io possiedo”.
Se Shakespeare si sentiva inadeguato, che speranza abbiamo noi? La forza di Phillips sta nel sottotitolo, “In Praise of the Unlived Life.” Questo è un libro che ci incoraggia a comprendere e amare la vita che facciamo e potrebbe servire come lettura altamente terapeutica per chiunque soffra di effetti collaterali derivanti dal dissolversi delle proprie ambizioni. La tempestività di questo testo non potrebbe essere migliore. Così come una generazione ha spostato i propri desideri dai beni materiali alle esperienze di vita, ora è emersa un’inedita corsa sociale agli armamenti. Siamo esposti al progressivo distacco tra chi vogliamo essere e chi siamo realmente. La vita vissuta è sotto attacco. Tra gli altri, il filosofo Slavoj Žižek (citato anche da Phillips) ha suggerito che da quando abbiamo smesso di prendere sul serio la religione, il nostro ‘Super-Io’, la parte della nostra mente che, come suggerito da Freud, agisce da controllo etico e morale, ci dice ora che dobbiamo essere felici e fare ogni sforzo possibile per goderci la vita. Nel suo recente documentario, Pervert’s Guide to Ideology, Zizek osserva che: “I miei amici psicoanalisti mi dicono che oggi i pazienti che vanno dall’analista per risolvere I loro problemi si sentono colpevoli non a causa dell’eccesso di piacere, non a causa dell’indulgere troppo in piaceri contrari al loro senso del dovere o ai loro principi morali. Al contrario si sentono colpevoli di non godere abbastanza. Di non essere in grado di divertirsi”.
GODERSI LA VITA AD OGNI COSTO E IN OGNI MOMENTO PUÒ DAR LUOGO AD ONERI STRAZIANTI
Ora crediamo sempre di più che dobbiamo a noi stessi il piacere, e che rinunciare ad esso equivale a perdere la vita stessa. Ma la realtà non è ingranata nel piacere. Ogni giorno, la vita vissuta è contaminata dalla malattia, dall’invecchiamento, dalla morte, dalla delusione, dalla disillusione, e dalla noia. (E chi può dire che il giorno dopo sarà migliore?) Phillips afferma che è questa la realtà, dura e noiosa; e che ospitare in noi lo spettro dell’edonismo ad ogni costo, vissuto peraltro come un debito permanente, può dar luogo ad oneri strazianti.
I social media peggiorano la situazione
Questo bagaglio può essere facilmente aggravato dagli insidiosi effetti collaterali dei social media. Ciò che i ricercatori hanno crudamente descritto come “L’invidia di Facebook” è la conseguenza naturale di una cultura on-line che l’evoluzione non avrebbe mai potuto prepararci ad affrontare. Una cultura che incoraggia gli utenti a “filtrare” in modo selettivo e pubblicare e promuovere la vanagloria, i fotogenici highlights dei successi personali.. Siti web come Facebook, Instagram, Twitter sono diventati insulsi cataloghi di persone apparentemente felici che fanno tutto quel che possono per essere associati ad esperienze interessanti, esotiche, e di successo. E in un clima di disoccupazione giovanile molti sono anche desiderosi di fare un bagno di pubblicità facendosi illuminare dalla presunta importanza della loro occupazione; recentemente ho notato una epidemia di giornalisti laureati postare fotografie delle proprie scrivanie ed uffici ornati dal proprio logo. Ci chiediamo mai per chi stiamo postando o siglando con un “mi piace” queste immagini e da dove ne derivi l’importanza? Probabilmente no, perché se mantenessimo nella vita quotidiana la stessa decisione che abbiamo preso online finiremmo in un campo minato psicologico fatto di invidia, di ricerca di convalida e di iper-compensazione. La maggior parte di noi sa bene che le immagini postate su questi siti web sono illusorie o millantatorie. Ma spesso non sappiamo resistere…
SOCIAL NETWORK COME INSULSI CATALOGHI DI PERSONE APPARENTEMENTE FELICI
Uomini e donne continuano a condurre una vita di quieta disperazione, ma gli utenti dei social media raramente vogliono condividere i dettagli delle loro sfide frustranti nella vita quotidiana; i visitatori casuali di Facebook, bombardati come sono dalle ‘evidenziazioni selettive, finiscono per sentirsi fondamentalmente inadeguati. E allora cosa facciamo? Nel tentativo di impressionare i nostri pari, corriamo ad aggiungere le nostre immagini più affascinanti alle gallerie infinite della nostra iper-socializzata società virtuale. Ma naturalmente (ed economicamente) questo può essere molto più difficile per alcuni che per altri. Forse sarebbe più sano per tutti noi applicare un test di Reithian (nota del traduttore: qui maggiori info) a tutto ciò che si desidera postare. Il post che vogliamo inviare dà informazioni, stimola la crescita o comunque intrattiene? Se è così possiamo postarlo. Al contrario potrebbe esser giudicato come auto-celebrazione? Se è così, cessate il fuoco! Se tutti i tuoi amici sanno com’è il Grand Canyon o come appare qualche celebrità, allora l’unico scopo di una foto in questi luoghi o con queste persone è quello di dire “’guardami, sto vivendo bene‘. Ma perché dovremmo considerare tutto questo come qualcosa di più di un volgarità?
ANCHE LA RICCHEZZA DELLE ESPERIENZE PUÒ DIPENDERE DAL CONTO IN BANCA
Come la ricchezza materiale, la ricchezza delle esperienze vissute può dipendere fortemente dalle dimensioni del nostro conto in banca. Se sei di classe medio-alta avrai maggiori possibilità di vivere esperienze e situazioni di quanto non possa fare chi non ha un reddito adeguato e la maggior parte di noi sa che non potrà mai inviare una fotografia mentre sta ammirando un tramonto nella Patagonia. Nel corso di un recente discorso alla Royal Society of Arts, a Wallman è stato chiesto se le esperienze sono diventate “solo un’altra forma di competizione con il prossimo”. Wallman si è dichiarato d’accordo, descrivendo lo sperimentare a tutti i costi come “un modo diverso di competere al di là dei semplici beni materiali”. Ha poi sostenuto che le esperienze sono più difficili da confrontare, anche perché quelle che vanno male “sono le migliori perché allora sì che ne puoi raccontare la storia”, e che in ultima analisi, è una buona cosa presumibilmente perché quello che ci va male ci rende più interessanti come individui. Paradossalmente l’idea di Wallman è vittima del suo stesso successo. Ha ragione nel dire che le esperienze fatte siano di gran lunga più importanti dei beni materiali; ma se la nostra cultura continua a incoraggiarci a perseguire caratteristiche di status ed a pubblicizzare allegramente i nostri sforzi per raggiungerle, il senso collettivo della vita di tutti i giorni non ne trarrà alcun giovamento. La sensazione di non vivere una vita ben vissuta inevitabilmente tende a peggiorare: è proprio questo ciò di cui Adam Phillips sta cercando di metterci in guardia. In Missing Out descrive questo incontro: “Mi ricordo di un bambino che mi diceva in una seduta – come fanno molti bambini – che essere un adulto è il punto di arrivo per un bambino e che la ragione per cui voleva diventare più grande stava nel fatto che solo allora avrebbe smesso di desiderare di essere più grande”. Non è questa una metafora perfetta per tutti noi? Ci sembra di vivere alla grande in modo da non dover desiderare di vivere in modo eccezionale. Quando facciamo vivere i nostri desideri corriamo a minare il valore della nostra esistenza quotidiana, un’esistenza che milioni di noi non potrà mai fuggire. Ma se uno di noi fa o non fa vivere i propri sogni il mondo continuerà a girare. La lancetta dei minuti comincerà a ticchettare nel profondo del nostro cuore creando una ferita che non potremo ignorare. La riflessione e quel sentimento di liberazione creati del senso globale di impellenza che ci pervade sono ad ogni probabilità il giusto equalizzatore delle nostre esperienze di vita.
*Psicoanalista
http://www.techzilla.it/facebook-social-ricchezza-capitalismo-102272/