Desiderio, un teatro dell’invidia
di Alessandra Pigliaru, ilmanifesto.info, 6 novembre 2015
Filosofo, critico letterario, storico delle religioni, sociologo, antropologo. Questo e molto altro è stato René Girard, straordinario osservatore delle relazioni umane. Scomparso ieri all’età di 91 anni, lascia alle proprie spalle una tra le eredità più affascinanti e originali del Novecento. La morte, dopo una lunga malattia, è stata annunciata nel sito dell’università di Stanford — dove Girard ha insegnato fino al 1981 – grazie a Cynthia Haven che attualmente sta ultimando la monografia The Last Hedgehog: René Girard, A Life.
La sua collocazione nel post-strutturalismo non restituisce la complessità del suo pensiero, né dell’incessante volontà di trovare un varco che gli consentisse già dai primi anni Settanta di congedarsi da Lévi-Strauss detonando infine la psicoanalisi freudiana a cui, in realtà, non ha mai aderito interamente se non concentrandosi su alcuni nodi concettuali cari a chi è stato suo interlocutore, vicino e a tratti troppo lontano. Tra i tanti ricordiamo Foucault, Deleuze, Barthes, Derrida. Sta di fatto che la circolazione e la ricezione delle teorie di Girard sono state di rilievo mondiale e gli hanno assicurato un posto tra gli intellettuali più rappresentativi della sua epoca. Già dal 1961, con il suo primo libro, Menzogna romantica e verità romanzesca (Bompiani, 1965) affronta la sua teoria più nota, quella del desiderio mimetico. Attraverso il romanzo moderno comincia a profilare la teoria secondo cui il desiderio è una triangolazione tra il soggetto, l’oggetto e il mediatore (il modello) che suscita l’interesse della comunità scientifica internazionale. Che il primo nucleo della teoria del desiderio mimetico si inserisca in un volume di critica letteraria segnala il grande amore di Girard verso le scritture, un amore consapevole della potenza che la letteratura ha di spiegare e rappresentare l’umana condizione e ciò che la infelicita, certo una significazione irraggiungibile dalle scienze sociali. Scrive pagine densissime nel suo Dostoevskij dal doppio all’unità (1963, poi SE 1987) e in Critique dans un souterrain (1976), sempre dedicato al romanziere russo. Il pungolo letterario non smette di interrogarlo; fondamentale il suo Shakespeare. Il teatro dell’invidia, del 1990 (Adelphi, 1998) con successive incursioni nei testi di Stendhal, Flaubert, Proust e molti altri. Nella primavera del 2008, per le edizioni della Stanford University, pubblica il volume Mimesis and Theory: Essays on Literature and Criticism, 1953–2005 che descrive bene la formazione e il dipanarsi del grimaldello critico della mimesis all’interno della letteratura.
Il desiderio non è una spontanea manifestazione dell’autonomia individuale, ecco la menzogna romantica e la conseguente verità romanzesca che si evince da alcuni esempi che Girard, dai primi anni Sessanta, non abbandona. Uno tra tutti è ascrivibile al capolavoro di Cervantes là dove Don Chisciotte comincia la sua impresa imitando colui che considera un modello di cavaliere errante, Amadigi di Gaula. Il mimetico interviene a spiegare che non si desidera mai un oggetto in maniera lineare, bensì solo in virtù di ciò che desidera l’altro che tuttavia da modello si trasforma presto in rivale, soprattutto nei casi di «mediazione interna» quando cioè il soggetto desiderante e il modello si confrontano reciprocamente sull’impossibilità di desiderare entrambi la stessa cosa. Il conflitto che ne scaturisce può raggiungere picchi esiziali dando luogo a odio, vendetta e violenza. Si desidera ciò che l’Altro possiede, certo, ma a ben guardare anche colui che ci fa accedere al desiderio. E se i paraggi lacaniani a un risultato simile non potranno sfuggire, la differenza è sostanziale: ciò che per Lacan si tratteggia nel simbolico per Girard accade su un piano antropologico, culturale e sociale. Il simbolico lacaniano, per Girard, non tiene conto dell’aspetto materiale. Una miopia, la stessa che attribuisce anche a Freud, verso l’esito della mimesi; quel che davvero dovrebbe interessare è, infatti, il momento della crisi sacrificale. È all’altezza del suo La violenza e il sacro pubblicato nel 1972 (Adelphi 1980) che si congeda dallo strutturalismo e quindi da Lévi-Strauss e decostruisce le posizioni freudiane, definendo meglio la scommessa del mimetico. Mostra il legame tra la teoria mimetica e la violenza attraverso una rilettura analitica di miti e riti classici.
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Gli uomini saranno dèi gli uni per gli altri. Sull’antropologia di René Girard
di Barbara Carnevali,leparoleelecose.it, 3 novembre 2015
[Due giorni fa è morto René Girard, uno dei maggiori antropologi e critici letterari del secondo Novecento. Il testo che segue è tratto da una conferenza pronunciata in occasione di un convegno su Girard alla Bibliothèque Nationale de France nel 2013. Una versione più elaborata è stata pubblicata sulla rivista «Tropos», VI, 2013, nel numero speciale Mimesis e Anerkennung . La teoria mimetica in lotta per il riconoscimento, a cura di Emanuele Antonelli].
1. Riduzione antropologica e realismo
Gli esseri umani sono essenzialmente esseri desideranti, sostiene René Girard. Nel suo primo libro, Mensonge romantique et vérité romanesque[1], pilastro originario della sua antropologia rimasto probabilmente il suo capolavoro, il desiderio è il fenomeno fondamentale che struttura l’esistenza umana nella sua tensione teleologica, spingendo il soggetto a uscire da sé e a volgersi verso l’alterità, inserendosi nel tessuto delle mediazioni sociali. Il concetto di «désir métaphysique» indica una specie di desiderio trascendentale che rappresenta la condizione di possibilità dei desideri empirici particolari e infinitamente variabili: esso consiste nel desiderio, provato consciamente o inconsciamente da ogni individuo, di assimilarsi tramite l’imitazione a un modello divinizzato che appare superiore e incommensurabilmente prestigioso. Il principio che permette di accumunare tutte le forme specifiche di desiderio e di riconoscerle come espressioni dello stesso desiderio metafisico è il meccanismo mimetico. Come Gabriel Tarde prima di lui, Girard propone una teoria metafisica dell’imitazione universale[2]. La sua analisi si discosta tuttavia dalla linea tardiana non solo perché si concentra unicamente sul mondo umano – mentre Tarde aveva fatto dell’imitazione un principio cosmico che regola anche il mondo naturale – ma perché non comporta una decostruzione della soggettività: l’imitazione non dissolve il soggetto in flussi impersonali di correnti che attraversano l’io, minandolo come centro di autonomia e di sovranità, ma si situa ancora a pieno titolo all’interno della tradizione moderna della filosofia del soggetto, di cui recupera significativamente una delle problematiche morali più classiche, quella delle passioni. Nel percorso tracciato inMensonge romantique, e che unisce Cervantes, Stendhal, Flaubert, Dostoevskij e Proust, il desiderio metafisico si articola in una serie di affetti differenziati, come la vanità, la gelosia, l’invidia, l’amore, lo snobismo, che rappresentano l’oggetto privilegiato di analisi della moderna psicologia romanzesca come della letteratura moralistica da Montaigne a Rousseau.
Tra tutte le passioni, l’invidia assurge al ruolo di fenomeno archetipico, ed è proprio sulla sua fenomenologia che si modella il desiderio mimetico[3]. Per identificare desiderio metafisico e desiderio invidioso Girard deve tuttavia ridefinire preliminarmente l’invidia, neutralizzandone la componente oggettuale. Si può definire l’invidia, infatti, come un desiderio perverso per qualcosa che è altamente desiderabile in se stesso, ma che non si può avere perché appartiene a qualcun altro. Nell’interpretazione mimetica, invece, ciò che l’invidioso desidera è in realtà l’esseredell’altro, non l’oggetto in suo possesso, il quale risulta desiderabile non in virtù di qualità intrinseche ma per il prestigio illusorio conferitogli dal suo proprietario. La dissoluzione dell’oggetto nella relazione intersoggettiva viene suggerita in Mensonge romantique come conseguenza inevitabile della scoperta del fenomeno del desiderio mimetico triangolare: «L’objet n’est qu’un moyen d’atteindre le médiateur. C’est l’être de ce médiateur que vise le désir» (MR, 69). L’identificazione tra desiderio e invidia[4] diventerà sempre più esplicita nelle opere successive di Girard a cominciare dallo studio su Shakespeare dal titolo emblematico, «A Theater of Envy». Ogni desiderio umano è desiderio invidioso, e questa verità disturbante sarebbe confermata proprio dalla resistenza che il fenomeno oppone ai tentativi di rivelazione. In più occasioni, Girard sosterrà che l’importanza dei fenomeni psichici è sempre proporzionale al loro diniego: sotto questo profilo l’invidia è paragonabile a ciò che la psicanalisi definisce «rimosso», al punto che sarebbe difficile dire quale sia il segreto più nascosto dell’animo umano[5]. Il paragone è illuminante. Non diversamente da quella di Freud, infatti, la teoria mimetica si fonda su un presupposto di metodo fortemente riduzionistico: per far emergere il rimosso e rivelare «le cose nascoste sin dalla fondazione del mondo» bisogna preliminarmente ridurre la realtà, ossia semplificare il volto sfaccettato delle sue manifestazioni fenomeniche, distinguendo ciò che è primario da ciò che è secondario, conservando l’essenziale ed eliminando il superfluo. La riduzione antropologica girardiana si articola in tre diversi momenti: nel primo, la natura umana viene ridotta a una sola delle sue componenti: il desiderio; nel secondo, il desiderio viene a sua volta ridotto a una sola delle sue manifestazioni – il desiderio metafisico o mimetico, rivolto all’essere altrui, e non oggettuale; nel terzo infine, sulla base della distinzione concettuale tra mediazione esterna (l’imitazione asimmetrica per chi è superiore), e mediazione interna, simmetrica (l’imitazione simmetrica e reciproca tra pari), che Girard declina in forma storica, il desiderio mimetico viene ridotto alla sua manifestazione più specificamente moderna: l’invidia tra uguali. È questa successione di operazioni sineddotiche a rendere possibile l’equivalenza tra désir e envie. La complessità dell’esperienza umana viene dissolta, e la natura umana viene identificata con una sola delle sue componenti[6].
Questo modo di concepire la realtà per riduzione e concentrazione su un solo fenomeno primario e dominante, che a sua volta comporta la necessità di interpretare i fenomeni attraverso una sistematica demistificazione cinica, che procede dall’alto verso il basso, dalla passione più nobile al movente più basso e volgare, iscrive Girard in una tradizione specifica, quella del realismo antropologico che, in opposizione ad altre forme più pluralistiche e ottimistiche di realismo, amo definire «realismo noir», e a cui spesso si richiama la tradizione del realismo politico. Prima di trionfare con la cosiddetta «scuola del sospetto» e la sua triade Marx, Nietzsche, Freud, questa linea di pensiero si è affermata nella prima modernità con Machiavelli, Hobbes e i moralisti francesi più influenzati dall’agostinismo, soprattutto La Rochefoucaul e Pascal. Girard, come vedremo, si confronta soprattutto con la versione agostiniano-giansenistica di questa tradizione, la sola fondata su presupposti apertamente teologici. Ma prima di considerare questo aspetto della sua antropologia dobbiamo soffermarci sulla sua concezione della modernità.
2. La moderna divinizzazione del sociale
Secondo Girard, il desiderio mimetico è il comune denominatore che accomuna gli esseri umani di ogni tempo e luogo. Le pulsioni invidiose, però, sono diventate pressanti nella psicologia degli individui contemporanei, in virtù della più intensa esperienza sociale che caratterizza la modernità. Il crollo delle strutture metafisiche classiche e medievali, e la secolarizzazione dell’esperienza che ne è conseguita, hanno abbassato il baricentro della condizione umana dal cielo alla terra: un tempo incentrato sul mondo divino e sul perseguimento di valori trascendenti, l’interesse degli esseri umani si è ormai fissato esclusivamente sul mondo sociale. L’investimento esistenziale nella dimensione intersoggettiva è direttamente proporzionale al grado di secolarizzazione dell’esperienza storica: «Dieu est mort, c’est à l’homme de prendre sa place. […] La négation de Dieu ne supprime pas la transcendance mais elle fait dévier celle-ci de au-delà vers l’en deçà» (MR, 73 e 75). Dal momento che gli dei hanno abbandonato il mondo, ogni ricerca di assoluto, di trascendenza, ogni richiesta di senso, deve necessariamente fissarsi sugli altri esseri umani. Sono loro a conferire valore all’esistenza di chi non può più trovare giustificazione altrove: gli uomini sono diventati dèi gli uni per gli altri, la formula folgorante che dà titolo al secondo capitolo di Mensonge romantique[7], può essere considerata un’originale reinterpretazione della tesi di Émile Durkheim che paragona la società a Dio, e che identifica i termini del sacro e del sociale («A mesure que le ciel se dépeuple le sacre reflue sur la terre», MR, 78). Ma oltre a sostituire il divino con il sociale, l’avvento della modernità ha allentato le strutture gerarchiche che contenevano le pulsioni invidiose. In un mondo sociale rigidamente suddiviso in «états», era impossibile che individui di condizioni e ambienti diversi potessero sentirsi in competizione reciproca – come invece, secondo Girard, è diventato abituale con il trionfo della società democratica. Con la fine dell’Ancien Régime, per effetto di una crescente mobilità sociale, l’invidia si è scatenata senza freni in ogni direzione, diventando l’affetto dominante della psiche, il più profondo, potente e violento. L’uomo moderno è un uomo invidioso proprio in quanto è un homo aequalis.
In Mensonge romantique Girard non deduce tutti i corollari che derivano dalla teoria della divinizzazione del sociale conseguente alla secolarizzazione moderna. Uno dei più importanti sarebbe l’emergere della questione del riconoscimento, che pure è un tema suggerito nei numerosi riferimenti impliciti a Kojève che costellano il saggio[8]. Il desiderio mimetico è infatti, indirettamente, anche un desiderio di riconoscimento: è un desiderio di desiderio, lo slancio di una coscienza che si volge verso l’alterità non solo per trascendersi e rinnegarsi, ma anche per giustificarsi, per trovare conferma, tramite il desiderio riflesso dell’altro, del proprio incerto valore. Tramite il desiderio di riconoscimento il soggetto reagisce alla sensazione della propria manchevolezza e cerca una giustificazione per la propria esistenza[9]. Questa ricerca di attestazione e di conferma, come ha mostrato esemplarmente Charles Taylor, non può che crescere in modo esponenziale nella società moderna, che ha fatto crollare il tradizionale sistema degli ordini e stravolto le condizioni tradizionali di formazione dell’identità individuale: la dipendenza dagli altri è certo sempre esistita, ma solo con la modernità è diventata un problema e l’oggetto di una drammatica lotta[10]. Di conseguenza, colui che Girard chiama il mediatore si trova a disporre di un potere immenso sui suoi simili: il poteresacro di riconoscerli o meno, di giustificarli emendandoli dalla loro mancanza e conferendo un senso alla loro vita. L’altro cui l’uomo si volge in cerca di riconoscimento è dunque un «dio dal volto umano» (MR, 78). Pierre Bourdieu riprenderà inconsapevolmente questa riflessione in una pagina delle sue Méditations pascaliennes, riflettendo sul riconoscimento come potere di categorizzazione e classificazione sociale che giustifica l’esistenza individuale: “Nul ne peut proclamer vraiment, ni devant les autres, ni surtout devant lui-même, qu’ «il se passe de toute justification». Or, si Dieu est mort, cette justification, à qui la demander? A qui sinon au jugement des autres, principe majeur d’incertitude et d’insécurité, mais aussi, et sans contradiction, de certitude, d’assurance, de consécration[11]“.
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