Per riflettere sul sovraccarico emotivo e cognitivo di chi esercita un lavoro di aiuto
di Maria Pia Fontana, anobii.com, 19 febbraio 2016
Il testo, che raccoglie in forma armonica e integrata diversi contributi e presenta interessanti casi clinici, evidenzia l’impatto che la sofferenza del paziente esercita sull’analista dandoci la possibilità di conoscere il terapeuta sotto un profilo diverso, meno asettico ed imperturbabile e più vicino all’umanità di chi ricorre al suo aiuto. L’analista, infatti, come ogni persona, fronteggia le sfide e le criticità della vita, e si fa carico di un lavoro di cura che lo espone continuamente al bombardamento emozionale di tante storie segnate da traumi, abbandoni, violenze ed esperienze al limite.
Il Inibizione, sintomo e angoscia (1925) Freud definisce il dolore come “la reazione propria della perdita dell’oggetto, l’angoscia la reazione al pericolo che tale perdita implica”. Quindi, il dolore nasce da un legame e da un investimento psichico e quando è troppo acuto e supera i limiti della tollerabilità, può fare sconfinare nella follia. (…)“Se istintivamente alla sofferenza ci ribelliamo, la capacità di “soffrirla” è indispensabile alla vita e alla salute mentale. Soffrire il dolore è un’esperienza psichica penosa che tuttavia proviamo perché siamo vivi e sensibili; sensibili dunque e anche consolabili, anche capaci di piacere, desiderio, tenerezza e amore (…). La capacità di soffrire il dolore è una conquista (…) che avviene all’interno e per il tramite di una relazione” (pag. 30). Talvolta, ciò che manca a tanti pazienti segnati da vicende traumatiche o da trascuratezza è proprio questa capacità di “soffrire il dolore” a causa delle profonde ferite che hanno impedito lo sviluppo di un io sufficientemente integrato e di un oggetto di attaccamento stabile e sicuro. lo aveva scoperto bene Eduardo De Filippo che nella commedia Filumena Marturano (1946) fa rammaricare la protagonista, che era stata un’adolescente gravemente deprivata e abusata, di non riuscire a provare neppure la soddisfazione di piangere di fronte al proprio dolore, a causa della deprivazione affettiva e della mancata esperienza del bene (“Quanno se cunosce sulo ‘o mmale nu se chiagne”).
Il dolore quindi, come tutte le emozioni, segue un filo rosso che dal paziente passa all’analista e da questo ritorna al paziente in un intreccio relazionale che vede i due protagonisti della coppia terapeutica strettamente interconnessi e capaci di influenzarsi reciprocamente, sfatando la falsa convinzione che ci sia un soggetto che si limita a ricevere aiuto e uno che si limita a darlo, in quanto entrambi si mettono in gioco nella globalità della propria individualità. Tutti i contributi contenuti nel libro sono sorretti dalla fiducia che al dolore non ci si debba arrendere e che metterlo in parola o rappresentarlo in qualsiasi forma simbolica (disegno, musica, movimento corporeo) sia la via maestra per attraversarlo (soffrirlo) e per superarlo. La stessa analisi, come scrive Bion (1963) implica una certa dose di dolore “perché un’analisi nella quale non si colga l’esistenza del dolore e non se ne parli, non sta affrontando le ragioni fondamentali per le quali il paziente è lì”. Eppure il fatto stesso di dover mettere il paziente a contatto con la propria sofferenza può ingenerare nel terapeuta un senso di colpa e di apprensione, specie se si tratta di un bambino.
Nel corso dei vari contributi vengono esaminati una serie di possibili disagi cui è esposto l’analista impegnato nel faticoso compito dipanare la matassa di sofferenza del paziente, che vanno da alcuni espedienti di espulsione del dolore (es. interpretazioni precipitose, atteggiamenti consolatori) alle fisiologiche reazioni di stanchezza o di noia di fronte alla ripetitività o all’incoerenza e disorganicità delle narrazioni del paziente, fino ad arrivare all’ansia e alla paura che si possono pure riflettere nell’attività onirica del terapeuta. E vengono quindi sottoposti ad analisi i sogni dello stesso analista piuttosto che quelli del paziente. Da qui l’importanza per il terapeuta del sostegno del gruppo di supervisione, capace di fare da specchio aiutandolo ad identificare gli empasse relazionali della relazione di cura dovuti a grumi di dolore non facilmente digeriti, al fine di trovare possibili strategie di superamento. Concetto centrale tra i vari contributi è quello di reverie, intendendo con ciò la funzione tipicamente materna, a suo tempo identificata da W.Bion, che l’analista ha nel contenere le angosce del paziente (come la madre fa con il bambino) e nell’attribuire un significato agli accadimenti, fungendo anche da contenitore affettivo. Se il testo si sofferma sul rapporto terapeutico di stampo psicoanalitico viene da chiedersi quali analogie e quali differenze possono riscontrarsi rispetto al sovraccarico emotivo di quegli operatori dell’aiuto che si muovono in uno scenario multidimensionale pure al di là dei confini dei setting professionali attraversando gli stessi mondi di vita degli utenti. Si pensi alle diverse forme in cui si declina l’accompagnamento educativo o il sostegno sociale. In questi casi, al dolore suscitato dalla pesantezza della biografia e dei vissuti degli utenti, si unisce talvolta l’impatto con il degrado ambientale dei loro contesti di vita, cosa che non di rado comporta una riguardevole impennata sui livelli di rischio per l’incolumità personale dello stesso operatore. Ma il libro che esplora le molteplici e variegate sofferenze di chi esercita l’aiuto nelle frontiere del lavoro sociale ed educativo deve ancora essere scritto.
Il testo: Il dolore dell’analista. Dolore psichico e metodo psicoanalitico, di Maria Adelaide Lupinacci, Daniele Biondo, Laura Accetti, Mirella Galeota, Adelia Lucattini.Con due contributi di Tonia Cancrini e Antonio Gambara. Prefazione di Antonino Ferro, Astrolabio, Collana Psiche e coscienza, 2015, € 22.