di Massimo Recalcati, repubblica.it, 8 maggio 2016
La cultura patriarcale ha concepito la maternità come un destino ineluttabile della femminilità, o, meglio, come purificazione del carattere ritenuto (ideologicamente) peccaminoso della femminilità. Diventare madre per una donna significava liberarsi dal carattere anarchico e irrequieto della femminilità, normalizzarsi, civilizzarsi. L’accudimento del focolare familiare e dei figli coincideva dunque con la morte della donna nel Nome della madre. Questa rappresentazione canonica della madre patriarcale — che oggi, grazie in particolare alla cultura femminista, sta finalmente rantolando — ha conosciuto rare ma significative eccezioni nella cultura dell’Occidente. Una di queste, indimenticabile per la sua forza drammatica, è la figura di Medea raccontata nella omonima tragedia di Euripide. Essa capovolge traumaticamente la rappresentazione patriarcale della madre: uccidendo spietatamente i suoi figli Medea mostra che non è la madre del sacrificio che annienta la donna, ma è la donna che rivendica la sua assoluta alterità di fronte alla madre. Conosciamo la sua storia: non potendo sopportare il tradimento del suo uomo (Giasone) che la abbandona per unirsi a Glauce, la principessa di Corinto figlia del Re Creonte, uccide per vendetta i suoi figli.
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