di Giovanni Cocconi, europaquotidiano.it, 22 settembre 2011
Qual è il sogno che Freud non vuole rivelare a Jung? Cento anni dopo, gli psicoanalisti di tutte le parrocchie non hanno ancora risposto alla domanda delle domande. «E se fosse stato un sogno omosessuale?» ha azzardato qualcuno l’altra sera, alla proiezione organizzata dal Centro psicoanalitico di Roma di The dangerous method (sic) di David Cronenberg. Freudiani e junghiani a confronto sul film che racconta la «riprovevole relazione» tra lo psicoanalista svizzero e Sabina Spielrein, la sua bella paziente e poi amante, ebrea russa che diventerà psicoanalista a sua volta. Peccato che nessuno junghiano si sia alzato per difendere la moralità del maestro, contro quel represso di Freud che nel film di Cronenberg sembra essere ossessionato dal sesso solo degli altri. Ma il sesso con la paziente non si chiamava transfert? «È fissato con il sesso perché non lo fa» spiega a un certo punto Otto Gross, il più depravato di tutti, morto giovane ma dopo essersi divertito con droga e donne più dei due maestri messi insieme.
A quel punto lo spettatore si rilassa perché vede confermato sullo schermo quello che ha sempre applicato nella sua spicciola sociologia quotidiana e verificato al bar: di sesso parla tanto solo chi ne fa poco. Il film di Cronenberg, in questo senso, è terapeutico e aiuta a confermare altre certezze: che portarsi a letto le pazienti è un vizio antico, che il sesso arriva dove non arriva la terapia, che l’emancipazione femminile è ingombrante anche per chi insegna a liberarsi dalle proprie inibizioni, che le corna sono corna anche per uno strizzacervelli, che la psicoanalisi non poteva che essere un’invenzione ebraica. Una sorta di bignami di Freud nel film meno freudiano di Cronenberg (pensate a Inseparabili o a Crash).
«Non sono a favore della psicoanalisi applicata all’arte» ha premesso l’altra sera Domenico Chianese, ex presidente della Spi, prima di sprecare molti elogi per il film. «Si vede che Cronenberg non ha mai fatto l’analisi e non la conosce» ha infierito invece Manuela Fraire, freudiana esperta di Sabina Spielrein, «una grande psicoanalista senza essere moglie di nessuno». A moderarli Fabio Castriota, presidente del Centro psicoanalitico di Roma. Proprio il dissenso tra i due conferma che non bisogna essere junghiani e freudiani per non andare d’accordo. Basta essere uomini e donne. Uno ha assistito a un grande film «sulla nascita della psicoanalisi, cioè uomini che guardano il corpo isterico della donna».
L’altra ha visto la «storia immaginaria di due uomini molto potenti e di una donna inquieta che non si ribella all’autorità, il film di un nord-americano che non capisce la cultura europea e non ha capito la grandezza di Sabina Spielrein». Un sigaro può essere solo un sigaro, diceva Jacques Lacan. Ma un film può non essere lo stesso film per tutti. Anche se freudianamente corretto come questo, girato in ambienti ricostruiti con fedeltà viscontiana, citando testi e lettere esattamente come erano stati scritti. Peccato che gli junghiani in sala siano restati zitti, senza azzardare altre interpretazioni. Per esempio sul sogno che Freud non vuole raccontare all’allievo per «paura di perdere la mia autorità». E alla fine il dubbio rimane. Se Freud fosse stato innamorato di Jung (e quella sera glielo avesse detto) la storia della psicoanalisi sarebbe cambiata?
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