Il “bello” di Babele, sono gli altri a dirci chi siamo

Tradurre non è rispecchiare le cose, ma creare un senso nuovo. Riflessioni sopra la traduzione a partire da Paul Ricoeur, Sigmund Freud, Marie Bonaparte

di Stefano Arduini, ilsussidiario.net, 25 giugno 2018

Paul Ricoeur scrive (ne Il paradigma della traduzione) che la traduzione esiste perché gli uomini hanno lingue diverse. Sembra banale ma non fermiamoci alla superficie di questa dichiarazione. Sappiamo che non si traduce solo perché non si capisce un’altra lingua. Non è così per il mondo romano che traduce i greci e nemmeno per il rinascimento italiano che volgarizza la classicità e per molti altri esempi. Tuttavia andiamo più a fondo di quello che intende Ricoeur. Che cosa cerchiamo nel tradurre? Certo qualcosa in cui possiamo riconoscerci, ma forse e con più desiderio anche ciò che ci è estraneo, forse incomprensibile o intraducibile. C’è un desiderio di rapporto nella traduzione, un desiderio di definire il proprio sé l’incontro con l’altro da sé. Come se nella relazione con l’altro da sé, rappresentato dal testo straniero, potessimo meglio scorgere il nostro vero io, come se nell’accogliere l’altro comprendessimo noi stessi. Ma ancora di più, come se nell’incontro con l’altro da sé fosse possibile superare la nostra limitatezza. Dunque sì, la traduzione esiste perché gli uomini hanno lingue diverse e in quella diversità riconoscono un valore, una possibilità di completamento. Solo quando siamo esposti alla diversità che lingue diverse ci impongono, solo in quel momento, abbiamo come la sensazione di poter andare oltre nostra finitezza.

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