Lo junghiano Paolo Aite racconta un “gioco” che si fa in analisi. “Sabbia e barchette, così curo i pazienti”

di Luciana Sica, la Repubblica, 25 febbraio 2013

«Cos’è il gioco della sabbia? Parlarne solo come di una tecnica terapeutica sarebbe banale. Perché invece è un modo diverso d’intendere la cura analitica, rompendo l’egemonia della parola a favore di un gesto originario che continua ad essere quello di ogni bambino. Creare delle immagini è un’inclinazione profondamente umana: da sempre esorcizza le paure e lascia affiorare emozioni tanto arcaiche quanto indicibili».
Paolo Aite è un bel nome dello junghismo italiano, ottantun anni portati con invidiabile lucidità. Il suo studio, non si direbbe però destinato alla cura dei pazienti. Sembra piuttosto un negozio di bizzarri giocattolini, le pareti coperte da una quantità di oggetti colorati in miniatura che si affastellano sulle scansie. C’è di tutto: elementi naturali come sassi, conchiglie, legni, muschi. E poi alberi, case, uomini, donne, soldati, animali domestici e feroci, macchine, barche… Ti guardi intorno e vedi anche il classico divano, e poi anche un paio di poltrone per il vis-à-vis, ma al centro della stanza c’è una sabbiera sul tavolo. Ed è lì – intorno a quella vaschetta azzurra – che si gioca, è dentro quel rettangolo che il paziente può inventare delle forme svelando qualcosa di sé e del suo rapporto con l’analista.

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