Ospiti – Fusini, Di Ciaccia: “Il Lacan che Joysce. Tradurre Lacan”

di Nadia Fusini, Antonio Di Ciaccia, lapsicoanalisi.it, 20 febbraio 2014

Trascrizione degli interventi tenuti in occasione della presentazione degli Altri scritti presso la Casa delle Traduzioni di Roma il 20 febbraio 2014

NADIA FUSINI: Tradurre è un po’ come servire due padroni, se ne scontenta sempre uno. La scelta sarà allora a chi essere più fedele, chi provare davvero a contentare, dei due padroni…
Un’altra immagine del traduttore è quella del go-between, del ruffiano, di uno che traffica tra due lingue e nel traffico, però, e questo rende la professione così strana, non ci guadagna nulla, di certo non in denaro… E allora di che gode? è una domanda da affrontare – tanto più in ambito analitico.
Deve esserci del piacere, altrimenti chi traduce non si renderebbe schiavo di due lingue e non si lascerebbe come un asino in mezzo ai suoni comandare da due padroni, prendendo spesso sberle e calci da entrambi. Perché ostinarsi in un mestiere, che non dà né fama particolare, né guadagno? Provo a indagare nel fascino losco di quest’atto infame – senza fama né onori – facendomi brevemente accompagnare da un illustre traduttore: Eugenio Montale. Poi verrò a Monsieur Di Ciaccia.
Montale confessò di essersi applicato alla traduzione con svogliatezza, parlò di “forzata e sgradita attività di traduttore”. In qualche modo fece capire di farlo per denaro; benché poco ne aveva bisogno. È per questo dio, del resto, che il ruffiano lavora; o perlomeno, così dice. Anche se in verità, per questo dio, ne serve un altro – quello dell’amore.
Altrove, Montale riconobbe che a qualcosa gli servì sforzarsi con tanto dispendio di energia; lo portò a “scavare un’altra dimensione nel nostro pesante linguaggio polisillabico” – così disse. Un linguaggio, continuò che a lui pareva “rifiutarsi a una esperienza come la mia”. Cioè, l’esperienza della sua poesia. Che è la vera attività che gli sta a cuore.
Ma ribadì: “La lotta non fu programmatica”. “Forse”, ripeté, se ha trovato la sua lingua è perché lo ha “assistito” disse, “la mia forzata e sgradita attività di traduttore”.
Si potrebbe anche dire: in quello che ha fatto, e cioè per arrivare alla poesia che ha scritto, gli è servito aver tradotto.
“Forse”, lui dice. “Senz’altro”, direi io. Nel senso almeno che le traduzioni di Montale, in particolare quelle shakesperiane, sono senza dubbio un incontro, una vera e propria realissima e umanissima “relazione”, che come tutte le vere relazioni umane lo ha arricchito.
Inutile che vi dica che per un poeta non v’è relazione che conti di più che quella linguistica. Se si è poeti, è chiaro che gli incontri più profondi avvengono nella lingua, grazie alla lingua. Del resto, altrove Montale dice che il poeta è l’uomo che scrive, non che vive. L’eccitazione vitale al poeta viene dalla lingua. Una reale esperienza dell’altro è per il poeta quella dell’altra lingua.
Di questa qualità e genere, e cioè un’esperienza, è l’incontro di Montale – negli anni ’30 e ’40, gli anni della guerra e del fascismo- con la lingua poetica inglese. Gli anni in cui incontra – nella lingua – T.S.Eliot, Hopkins, Shakespeare. Ma non sono qui per parlare di Montale, ma di Di Ciaccia e delle sue traduzioni di Lacan. E sono qui per dire che in particolare questo ultimo volume, gli Altri scritti, mi pare un esempio superbo di traduzione, ovvero di invenzione linguistica. È qui che Di Ciaccia si dimostra un sublime seguace, un magistrale adepto, un allievo incomparabile del maestro.
Perché qui Di Ciaccia incontra Lacan e la sua lingua, il francese, a una sublime altezza: il francese di Lacan è un’invenzione, nessuno parla così in francese… E qui si ripete credo l’innamoramento che immagino Di Ciaccia provò quando incontrò il Maestro. Non mi sorprende se all’inizio Di Ciaccia, come mi ha a volte raccontato, ebbe le vertigini: non mi sorprende se se ne innamorò – della lingua francese, di Lacan, intendo dire. Certo è che se ne cibò, e quella lo nutrì, e lo trasformò. Trasformò la sua di lingua, intendo dire.
Quello che si sente nella traduzione di Di Ciaccia è che allo stesso modo di Lacan gioca con le parole, segue il loro aire, assecondando la lingua originale che lo trasporta, lo transla, nel senso di una translazione, che sottende l’atto del tradurre. Dietro questo atto c’è un’operazione di trasporto – translare, transferre… Il prefisso trans è fondamentale: indica un passaggio oltre un termine, un attraversamento, un mutamento da una condizione a un’altra. Nell’uso moderno ‘transportare’ diventa ‘trasportare’; ‘transformare’ ‘trasformare’… Noi diciamo ‘transazione’, ‘transigere’, ‘trànsito’, ‘transizione’ ecc. E sempre quel prefisso ci serve per formare parole e nomi nuovi, soprattutto del linguaggio dotto, scientifico o tecnologico: in geografia, col significato di ‘al di là’, come in ‘Transgiordania’ e in ‘transdanubiano’, o con quello di ‘attraverso’, in aggettivi riferentisi a mezzi di comunicazione (strade, ferrovie, ecc.): ‘transaustraliano’, ‘transatlantico’, ‘transiberiano’, ‘transpolare’. In particolare, nella terminologia scientifica, può indicare il superamento di un termine (transfinito), l’attraversamento di un corpo, scambio, spostamento; in medicina indica per lo più una sede o modalità di passaggio (puntura transparietale; contagio transplacentare); in biochimica, nel caso di enzimi, sottolinea una funzione di trasporto di un radicale: radicale aminico per le transaminasi; radicale metilico per le transmetilasi.
Se dunque la traduzione è, com’è nella sua radice, un trasporto, un transfert, tecnicamente un’estasi – ek-stasis, e cioè, ex+stasis – allora chi traduce può conoscere l’estasi, in quanto trasporto nella carnalità linguistica dell’altro. O meglio, può conoscere la paradossale ambiguità tutta mistica di ‘una lingua alterata’. Una lingua alterata, ho detto: paradossale condizione di chi parla la lingua dell’altro che ha traportato nella propria lingua.
Noi sappiamo che v’è nel linguaggio mistico del delirio, c’è dell’osceno, c’è della violenza, dell’effrazione, una turbolenza; c’è, infine, differenza. Il grande storico Michel de Certeau usa l’immagine bellissima di “lingua alterata”, da intendersi in senso proprio come la lingua in cui si manifesta l’altro, una lingua non in mano all’io.
Di Ciaccia volge in italiano Lacan. “Volgere”, “versione” è un altro modo per dire “tradurre”, “traduzione”. “Versione” viene dalla radice latina di vertere: per analogia con il latino, le lingue europee moderne ancora mantengono tracce di quell’azione. Parliamo di una versione italiana di Shakespeare, come di una versione inglese di Dante. Così come nella parola ancora più antica di ‘tropo’, risuona lo stesso gesto del ‘volgere’: un vertere che ha a che fare con l’atto di interpretare, spiegare.
Convertere – volgersi con o verso – è usato da Cicerone, quando nel suo De optimo genere oratorum afferma: “Converti enim ex Atticis duorum nobilissimas orationes”. È usato anche da San Girolamo nella sua lettera a Pammaco: dove dal contesto si capisce che usa il termine per indicare un tipo di traduzione libera, interpretante. Reinventante.
La ‘versione’ è in effetti pensata come una forma speciale di traduzione più libera, più tollerante, più aperta. Nel termine ‘versione’ prevale il senso di libertà, si fa sentire un’affermazione di libertà e si lascia intendere una differente relazione tra la resa e l’originale.
Al termine ‘versione’ associamo un rapporto personale, pragmatico, drammatico direi; è una traduzione firmata, una traduzione di qualcuno che ha il suo nome; e dunque si configura un modo di relazione – come di due attori che danno due differenti, ma egualmente interessanti performances della lingua – una lingua messa in atto. Agita. Da due soggetti.
Nel caso Di Ciaccia-Lacan credo che possiamo senz’altro dire che trattasi di un esercizio ove si dimostra una specialissima empatia, dove cioè si realizza una capacità particolare, un esercizio intendo dire che rende capaci, al calore della passione, di una comprensione profonda. Passione ho detto, perché più che una scienza, la traduzione è una passione… C’è della scienza, of course, si trasferisce nella traduzione qualcosa della vita intellettuale, ma soprattutto la potenza dell’immaginazione.
Per tornare al Montale, le sue traduzioni dei Sonetti di Shakespeare e dell’Amleto sono per l’appunto sue versioni. Io lettore so, sono perfettamente consapevole di non stare leggendo Shakespeare, so di stare leggendo Montale che prova a far parlare Shakespeare in italiano, e trovo che sì, lo sa fare, lo fa bene. Amo le sue traduzioni e non mi importa davvero se la parola italiana che trova è quella che traduce alla lettera la parola inglese. In effetti, se questo è il metro, siamo in un altro pianeta. La versione Montale di un sonetto di Shakespeare è un testo modificato, un midrash, una variante interpretativa, la cui variazione dall’originale va analizzata in termini logici di corrispondenza per deviazione.
Montale ne è consapevole e difatti nella nota al Quaderno di traduzioni del 1948, a proposito della sua traduzione dei sonetti 22, 33 e 48, parla di “rifacimenti”. Così li chiama. E lo sono. E sono a tutti gli effetti straordinari.
Ma ancora più straordinario è quel che egli impara da quei rifacimenti. Perché nel processo del rifacimento, mentre cioè rifà Shakespeare, acquisisce all’italiano un tono, un timbro del tutto nuovo alla nostra lingua. Insomma, se Dante risciacquava la sua lingua in Arno, Montale la risciacqua nel Tamigi.
Ma facciamoci ora la domanda centrale: come si incontrano l’italiano di Di Ciaccia e il francese di Lacan in queste traduzioni? le versioni di Di Ciaccia sono di una fedeltà assoluta. È affascinante vedere come in esse il traduttore giochi con tutto lo spettro della famiglia di significati che sprigionano dalla radice latina di vertere: conversione, perversione, inversione, reversione, avversione… Quel che accade – a me sembra – è che il traduttore si dona all’originale, vi si annulla, e così facendo vi si ritrova – un altro. Trova, intendo dire, la sua lingua nell’altro.
Nell’incontro con Lacan Di Ciaccia si confronta con una lingua di incomparabile ricchezza, e stravaganza. Una lingua inventata, una lingua massimamente creativa, divagante, joyciana, una lingua alterata essa stessa, profondamente penetrata dalle esperienze di lettura del maestro Lacan, c’è Joyce, c’è Sade, c’è da parte di Lacan il suo personalissimo love affair con le lingue che incontra, secondo una modalità creativo-poetica di stampo metafisico. C’è tutto quel che gli va, tutto quel che gli è congeniale. Lacan ha come pochi il sentimento della lingua, quello che in inglese si direbbe il sentimento the languageness of language. È così squisitamente intonato alla lingualità della lingua, all’aspetto langagière della lingua che ogni altra lingua dopo la sua sembra opaca. Ci abitua così alla percezione di una ricchezza mentale di fronte alla quale la lingua deve fare i salti mortali per inventarsi parole e modi di dire che non esistono, e dunque a scontraci con una alterità dentro, la nostra otherness within. Scusate se uso l’inglese, ma mi viene in mente Shakespeare.
Con le sue invenzioni Lacan ci dimostra come il pensiero sia povero, o troppo sistematico, o troppo logico… Come dice un poeta che amo, ormai lo sapete, in modo particolare: “that which is creative must create itself…“. È in questa vena che scrive Lacan, e in questa medesima vena creativa lo traduce Di Ciaccia. In una lingua che non rigetta la ragione, ma sgorga dallo schianto della ragione, quando la ragione si scontra con qualcosa che la supera.
L’italiano è una lingua molto bella, ma in verità anche chiusa, chiusa intendo nel senso che non è aperta ad innesti con altre culture; è stata una lingua imperiale, ma non imperialista, com’è l’inglese, com’è in misura ridotta il francese. Bisogna farle una certa violenza, all’italiano, per tradurre Lacan. La stessa che Lacan fa al francese. Forse di più.
La quantità di violenza richiesta, e su chi orientarla, questo è il problema. Si può scegliere se fare violenza a se stessi, o all’altro. Alla propria lingua, o alla lingua straniera. Alla lingua propria o a quella dell’altro. Si può forzare, tirare, stirare, ma non si deve rompere… Sempre tornando a Montale, Montale usa un verbo molto espressivo: torcere il collo. Torcere il collo significa strozzare. Lui dice: “volevo torcere il collo all’eloquenza della nostra cara vecchia lingua aulica”.
Di fatto Lacan gira, rigira, storce, distorce il francese. E Di Ciaccia ripete lo stesso gesto in italiano. Se invitate qualcuno a pranzo a casa vostra, voi farete in modo che sia trattato bene, siete pronto a sacrificarvi, voi, il padrone di casa, per l’ospite: è una legge minima, la prima, dell’ospitalità. Di Ciaccia non v’è dubbio, credo, che sappia che c’è della violenza implicata nella relazione con l’altro, l’altro altro, l’altra lingua, e sa anche che ‘quanto’ è tutto. E che in italiano chi legge deve trovare un senso. E questo senso sarà legato alla giusta misura della violenza.
Io ho praticato la stessa azione. Conosco il sentimento di umiltà e devozione che il traduttore può, deve nutrire nei confronti del testo che ha di fronte. Nei confronti dell’originale. Conosco anche la tentazione di ‘rifare’ il verso, di ‘imitare’, di ‘gigionezzare’… E ammiro Di Ciaccia perché non lo fa mai. Il suo rispetto dell’originale è assoluto. In un certo senso, ha l’umiltà di offrire una versione di servizio. Vuole aiutarci a leggere Lacan in italiano. E lo fa davvero.
Naturalmente, noi dobbiamo considerare che Lacan non ha scritto in italiano. Lacan è qualcosa che è accaduto alla lingua francese. Non a un’altra lingua. Intendo dire: la sua lingua nasce in quella lingua. Potremmo giocare con i termini langue e parole, dire che la sua parole è l’effetto di quella certa idea sociale e convenzionale del linguaggio in cui cresce… Ma è un dato di fatto: Lacan è qualcosa, è una malattia che è di quella lingua.
È questo un pensiero che in sé condanna alla sconfitta il mestiere del traduttore. Ripeto, Lacan non è nato in italiano. Dobbiamo tenerlo a mente. Significa qualcosa: significa che dalle sue budella, dal suo ventre, l’italiano non ha generato quell’evento linguistico.
Ma il traduttore assume l’impossibile compito di lasciar accadere un evento in una lingua che non l’ha generato. E poiché le lingue non sono assolutamente straniere l’una all’altra, ma sono intrecciate quanto al fatto che vogliono tutte esprimere, e poiché l’essenza ultima della lingua è di comunicare noi pensiamo che questa cosa impossibile debba, possa accadere.
E questo libro è la testimonianza che è accaduto. Non siamo in presenza di una pigra mimesi, di una passiva imitazione mimetica. Chiaramente Di Ciaccia sceglie la sua forma di fedeltà. Alla forma. Al movimento del pensiero. In ogni traduzione c’è del sacrificio implicato. È la parte più difficile del mestiere. Non si riuscirà a far passare tutto, tutto il senso e tutto il suono dell’originale. Il trasferimento non sarà mai totale. Ecco allora le note, in cui a volte ci spiega l’intraducibilità di certi termini.
Ma la verità è che questa impresa può avere luogo perché Di Ciaccia ha una grande fiducia, fiducia in Lacan, più che in se stesso. Fiducia in sé e fiducia nel lettore, perché ha fiducia in Lacan, che saprà trovare il suo lettore, malgrado la complessità del suo ragionare.
In questo l’aiuta il suo essere analista. È come un poeta che traduce un poeta. Per questo ho fatto l’esempio di Montale con Shakespeare. Bisogna avere una grande fiducia nella propria capacità di ricreare quel complesso sonoro, in cui la poesia consiste – nel caso di Montale. Un traduttore che non sia un poeta, un lettore per quanto appassionato, che fa quello che fa perché è innamorato dell’originale, non avrà mai lo stesso coraggio di un poeta. Si concentrerà più sul significato, mostrerà interesse e sensibilità ai ritmi e alle forme, ma soprattutto vorrà mantenere tutte le parole e tutti i significati. Quel traduttore duellerà con il poema inglese che sceglierà di tradurre non per sostituirlo, non per sorpassarlo. Vorrà che la sua traduzione sia trasparente: che non copra l’originale, non oscuri la sua luce.
Allo stesso modo, Di Ciaccia si prende la libertà di giocare con l’italiano, proprio per l’estrema fedeltà che tributa al suo autore. Sa che ogni lingua gioca a modo suo, e proprio questo rende il compito di tradurre così difficile… Certo, lui ha vicino Michelle, che ha un orecchio fino, e soprattutto per la quale quella lingua è madre, e dunque ne conosce i balbettii – che sono fondamentali per chi voglia ben tradurre… Perché chi traduce, il traduttore, attenzione, non è un tecnico della lingua; semmai, deve conoscerne gli inciampi, i mancamenti… Bisognerebbe sempre tutti rimanere infanti, per saper davvero ascoltare una lingua… E rimanere così esposti, così pronti alla meraviglia, da avvicinare ogni volta quel quid linguistico che rimane musicale, istintivo, non programmato, improgrammabile; bisognerebbe, per tradurre bene, agire per istinto, senza una teoria.
Per concludere, a me sembra che quel quid, o quiddity direbbe il poeta gesuita Hopkins, Di Ciaccia lo coglie. E, in ultimo, di una cosa lo invidio, del fatto che non sento nelle sue traduzioni quel che sento spesso in altre traduzioni, certo nelle mie. L’angoscia.
Per Montale, ad esempio, l’angoscia deriva da una lealtà che non è tanto rivolta all’originale, ma alla poesia stessa. Vuole fare poesia in italiano del testo inglese che ha di fronte. E si angoscia, e spesso fa delle operazioni di intervento nel testo originale che lo deformano. Per non perdere, butta via.
Non vorrei dire di più, ma vorrei indicare come nella traduzione ci sia in atto una esperienza della perdita. E forse bisogna avere forte la fede nella resurrezione per praticarla come la pratica Antonio Di Ciaccia.

Per continuare con l’intervento di Fusini e leggere quello di Di Ciaccia e le domande:
http://www.lapsicoanalisi.it/psicoanalisi/index.php/per-voi/rubrica-di-antonio-di-ciaccia/134-il-lacan-che-joysce.html

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