DONNE CORAGGIOSE, fare la psicoanalista a Teheran

Non porta il velo (a meno che un suo paziente non sia molto religioso) e mette sul lettino uomini e donne (senza differenze). Eppure, nel paese di Gohar Homayounpour, per un tradimento si può ancora finire lapidate

di Caterina Duzzi, Grazia, 22 ottobre 2012 (segnalato da http://www.spiweb.it)

Ammetto di aver scrutato oltre le porte girevoli dell’hotel, dove avevamo appuntamento, con più curiosità del solito. Che tipo di donna mi sarebbe venuta incontro? Di lei avevo scarne informazioni: una psicoanalista di Teheran, membro dell’International Psychoanalytical Association, con un nome musicale, ma quasi impronunciabile, Gohar Homayounpour, che ha appena pubblicato un libro, in inglese, Doing Psychoanalysis in Teheran (da noi uscirà per le edizioni Cortina) e si trova in Italia oltre a praticare privatamente la professione in occasione del seminario internazionale di Pavia, Geografie della psicoanalisi. Non avevo idea di quanti anni avesse né di come si sarebbe presentata: un velo o un semplice foulard, a coprire i capelli. La cautela con cui aveva accettato l’intervista, chiedendomi di mandarle prima le domande che le avrei fatto, faceva supporre una certa reticenza. Ma poi, in leggero ritardo e con passo deciso, l’ho vista infilarsi nell’anta di vetro della porta: bella, giovane, sottile, un trench nero, jeans skinny, tacchi alti e i capelli liscissimi e scuri, perfettamente scoperti. È lei a raccontarmi la sua storia da principio (ma anche a mettere in chiaro che saranno poche le informazioni personali che mi darà: «Meglio concentrarsi su quello che faccio»): nata a Parigi da genitori iraniani, intellettua li e colti, a 13 anni si trasferisce con la famiglia in Canada e, più tardi, negli Stati Uniti. Da sei anni vive in Iran, dove insegna al corso di Psicologia della Shahid Besheti University di Teheran, oltre a praticare privatamente la professione.

Un percorso opposto a quello di molti dei suoi connazionali. Come mai ha deciso di vivere a Teheran? «Facevo già l’analista negli Stati Uniti, ma l’idea di lavorare aTeheran era una sfida professionale molto interessante. Il progetto iniziale era di stare due anni, poi sono rimasta bloccata dai miei pazienti che mi dispiaceva lasciare. È una sensazione agrodolce,dal punto di vista del lavoro è bellissimo e gratificante, da un altro, può immaginare quanto sia duro».

Per una donna che arriva dagli Stati Uniti sarà molto difficile convivere con le restrizioni che esistono in Iran. «È un discorso molto complesso. Io insisto sempre su questo punto: bisogna distinguere la politica dalla cultura. La cultura iraniana non ha niente a che vedere col sistema politico, lei stessa sarebbe sorpresa nel vedere come si vive realmente in Iran. Non sto dicendo che non sia difficile, ma i media internazionali propongono un ritratto molto diverso dalla realtà del Paese. E poi io sono convinta che il concetto di libertà non venga da fuori, ma da dentro. Siamo liberi o no a prescindere da dove viviamo».

Ma ci sono legislazioni che ci privano di ogni libertà. «Può essere che le cose peggiorino, ma fino a ora sono riuscita a fare la mia vita e a esercitare liberamente la mia professione».

Se arriva un paziente e le dice che è omosessuale, o una donna che ha tradito il marito? «Succede ogni giorno».

Ecco, ma non ha mai avuto paura che uno di loro fosse in realtà una spia dei Pasdaran? «No, se iniziassi ad avere questo tipo di paranoia, non potrei più funzionare come analista».

Più che una paranoia, potrebbe essere una paura giustificata, però. «Non è che non sono in contatto con la realtà, diciamo che finora non è mai accaduto. Se succederà, vedremo. È inutile temere qualcosa che non è successo. Se è per questo, potrei uscire di qui ed essere investita”

Diciamo che è meno probabile. «Una delle cose che ho scritto nel mio libro è che, a Teheran come a Milano, il dolore è il dolore, le persone hanno il cuore spezzato in tutto il mondo per le stesse ragioni, perdono qualcuno che amano, tradiscono il marito. Le profondità degli esseri umani sono le stesse ovunque».

Il suo libro è stato pubblicato in Iran? «Per ora no. L’ho scritto in inglese perché in farsi non sarei stata in grado. Se lei vuole sapere se avrò problemi di censura, ancora non lo so, anche se non ho scritto niente di politico».

Qual è la sua risposta alla domanda che, nel libro, lei pone: la psicoanalisi è possibile nella Repubblica Islamica dell’Iran? «È una domanda che ho posto nel libro perché tutti me l’hanno posta. Per me è strana anche la domanda in sé. Ma, comunque,visto che tutti se lo chiedono, volevo dire, una volta per tutte, che sì, è possibile, per le ragioni di cui abbiamo parlato prima».

Nel mondo occidentale alla psicoanalisi ormai si preferiscono terapie più brevi. In Iran, invece, c’è molta domanda? Non ha idea di quanta gente vuole andare in analisi, e siamo solo in dieci psicoanalisti, tra cui due sole donne. Io praticamente sarei impegnata per i prossimi vent’anni! Nel gruppo freudiano che ho fondato e dirigo, abbiamo trovato un modo per mettere in contatto telefonico pazienti con analisti di tutto il mondo».

Lei che ha lavorato sia negli Stati Uniti sia in Iran ha notato differenze nei problemi dei suoi pazienti?

«È difficile generalizzare, i conflitti universali sono gli stessi. Però è diverso il modo con cui si vivono, ho notato che gli iraniani sono più depressi mentre gli americani più ansiosi».

In Italia la stragrande maggioranza delle persone che vanno da uno psicoanalista sono donne, e da voi? «Davvero? Mi stupisce: in Iran, la percentuale è assolutamente equilibrata. Forse ci sono più donne nelle terapie di gruppo».

Gli uomini iraniani accettano senza difficoltà di sdraiarsi su un lettino con un’analista donna? «La maggiore resistenza al lettino è la resistenza all’inconscio. Magari un americano ti dice che ha mal di testa, un iraniano adduce una scusa diversa, per esempio che è un gesto maleducato. Alla seconda seduta nessuno ci fa più caso. È vero che, apparentemente, l’uomo iraniano fa fatica a mostrarsi sottomesso di fronte a una donna. Ma guardi, io so benissimo che la legge in Iran è molto oppressiva per le donne, ma lei si stupirebbe di vedere che, nella vita privata, sono le donne a decidere tutto».

Forse lei sta parlando delle classi privilegiate, quelle da cui provengono i suoi pazienti. «No, mi creda, ho lavorato anche con persone con background completamente diversi».

Continuo a pensare che, anche se decidono in casa,possono essere lapidate se tradiscono il marito. “Non voglio assolutamente giustificare però accade molto meno di quello che i media occidentali raccontano, e succede anche agli uomini. Non è una questione di genere, ma di quello che può accadere quando un Paese non è secolarizzato».

Lei ha scritto che gli occidentali hanno “l’ossessione” del chador.  «Sì, tutte le volte che si parla di Iran, nei film, nei reportage, nei libri, c’è sempre questo cazzo (dice proprio così, ndr) di chador. Non vede? Io ho i jeans».

Anche in Iran si veste così?  «Nel mio ufficio dipende, se c’è un paziente molto religioso mi metto un foulard, per le donne non c’è bisogno. Cerco di rispettare i pazienti. E, quando esco, metto qualcosa sulla testa ma non certo un chador».

L’Iran sta vivendo una pesante crisi economica, in parte dovuta alle sanzioni internazionali. S’immagina che questo possa innescare cambiamenti, magari anche da voi una Primavera Araba? «Non voglio parlare di cose politiche, mi dispiace».

Dove immagina il suo futuro? «Non lo so, ho imparato con dolore, avendo perso da poco mio padre, che non ho il controllo di tutto quel che succede nella mia vita, e così decido giorno per giorno. Potrei vivere ovunque nel mondo, ma ho scelto Teheran. Oggi per me l’Iran è il posto più interessante e gratificante dove lavorare, domani chissà».

http://www.spiweb.it/index.php?option=com_content&view=article&id=2712:intervista-all-analista-iraniana-gohar-homayounpour&catid=540&Itemid=665

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