di Luciana Sica, repubblica.it, 3 dicembre 1992
Le straordinarie “Valchirie” del movimento psicoanalitico sono ritratte con affetto e complicità da un gruppo di signore non tutte impegnate nella professione di analista ma sempre molto coinvolte dalle teorie di Sigmund Freud, in particolare da quelle che riguardano un’angosciosa domanda che lo stesso maestro di Vienna un giorno pose bruscamente a un’allieva bizzarra e amatissima, la principessa Marie Bonaparte. Quella domanda era, ma continua ad essere (perché nessuno ha finora saputo rispondere): “Cosa vuole la donna?” Anna Freud e Melanie Klein, Lou Andreas-Salomé e Marie Bonaparte, Sabina Spielrein, Helene Deutsch e Karen Horney, Francoise Dolto e Luce Irigaray: sono loro le protagoniste della revisione – e a volte del sovvertimento – di alcune discusse dottrine sul “continente nero” della femminilità, messe in crisi ormai anche dai neuroscienziati (che hanno, ad esempio, definitivamente chiarito come le cellule nervose del piacere femminile non risiedano nella vagina: e quindi, altro che immaturità dell’orgasmo clitorideo).
Sono loro – le grandi amiche di Freud, nonostante i dissensi – anche le protagoniste di un bel libro curato da Silvia Vegetti Finzi, Psicoanalisi al femminile, pubblicato da Laterza (pagg. 400, lire 28.000). E’ – questo libro – anche un modo di chiudere l’antica querelle tra Freud e le femministe? La Vegetti Finzi, docente di Psicologia dinamica all’Università di Pavia e autrice di molti saggi tra cui il recentissimo Romanzo della famiglia di Mondadori, non ama la drasticità: “La fase dell’ accusa, della denigrazione è alle spalle. E’ finita la sudditanza, e quindi anche l’aggressività. A noi oggi interessa soprattutto sapere cosa hanno detto le psicoanaliste donne. Non importa più affermare che la differenza sessuale incide sull’elaborazione e la clinica psicoanalitica. Importa piuttosto dire come ha effettivamente inciso. Siamo oltre Freud, che ha fatto la sua parte: non ha più senso attaccarlo come fosse un padre onnipotente che delude i suoi figli, e soprattutto le figlie. Freud non poteva fare di più. E in un certo senso l’ammetteva…”. Certo che lo ammetteva. In pratica, alle sue amiche psicoanaliste non ha fatto che ripetere: signore mie care, a certe cose pensateci voi, è innanzitutto a voi che spetta la parola. E la conclusione della celebre lezione sulla femminilità? E’ di un’umiltà sconcertante: “Se volete saperne di più sulla femminilità, interrogate la vostra esperienza, o rivolgetevi ai poeti, oppure attendete che la scienza possa darvi ragguagli meglio approfonditi e più coerenti”.
Più tardi, nel Compendio, Freud scriverà che la psicoanalisi ha lasciato una grande questione insoluta. Questa questione non è altro che la differenza tra i sessi. Non è la dichiarazione di un mezzo fallimento? Anche Jacques Lacan – come nota la Vegetti Finzi nell’introduzione a questa curiosa galleria di ritratti – identificava “l’enigma della femminilità” con il nucleo dell’inconscio. “L’inconscio è il discorso dell’altro”, scriveva il maestro francese. E poi chiedeva: l’altro, chi sarà mai in una società androcentrica? Innanzitutto l’altro sesso. Come a dire che la femminilità non è soltanto l’enigma della psicoanalisi, ma della nostra cultura. L’enigma, insomma, non è risolto. E neppure forse risolvibile. Le autrici dei ritratti scavano però tutte nel rapporto sempre strettissimo tra la vita al femminile e l’avventura intellettuale.
C’è innanzitutto la figlia, Anna Freud, raccontata da Simona Argentieri. Affascina di lei il difficile rapporto con la grande figura paterna e la graduale sottrazione all’affettuosa tirannia. Freud definiva Anna “la mia Antigone” e non poteva farne a meno, “come dei suoi sigari”. Anna, asceta e bambina vezzosa – analizzata dal padre tutti i giorni alle dieci di sera, sei volte alla settimana, per quasi quattro anni – riuscirà a conquistare una sua autonomia, forte anche del dolcissimo legame con Dorothy Burlingham. Anna Freud inventerà una sua teoria, diventerà una caposcuola, tanto che tutta la Psicologia dell’Io deriva proprio da lei. Scherzava John Bowlby: “Mentre Anna Freud andava a pregare davanti all’altare di San Sigmund, la Klein pregava davanti a quello di Santa Melanie”. Una battuta per dire della fiducia in se stessa, della capacità di tener fede al proprio pensiero di Melanie Klein, ritratta da Adele Nunziante Cesaro. E’ lei “la madre” colpita dai lutti, incline alla depressione, che però non trema mai di fronte a nessuna difficoltà. Da dove viene la sua forza indomabile? In chiave (ovviamente) tutta psicoanalitica: dall’aver interiorizzato una figura materna idealizzata. Quanti scontri, però, con la figlia Melitta.
Ed ecco Marie Bonaparte (descritta da Anna Maria Accerboni), la gran dama avventurosa, l’ amica impavida che strapperà Freud alla furia del nazismo. Tra il vecchio maestro e la volitiva principessa il rapporto è di una confidenza assoluta. “Non mi intendo affatto di esseri umani”, le dirà una volta l’ uomo che ha indagato i recessi più profondi dell’ animo umano. E ancora, con amarezza: “Offro la mia fiducia, e poi rimango deluso…”. Con le lacrime agli occhi, Marie risponderà: “No, mio caro amico, io non vi deluderò”. Ancora uno splendido ritratto, firmato da Nadia Fusini. E’ di Lou Andreas Salomé, la figlia del generale russo che Nietzsche vedeva come “un piccolo genio… acuta come un’aquila e coraggiosa come un leone… una bimba, molto femminile”. Lou – amica anche di Rée, di Rilke e infine di Freud – ha la capacità di riscrivere l’esperienza amorosa in modo completamente nuovo. Il sogno d’amore non implicherà più lo spostamento del baricentro dalla donna alla figura maschile, perché lei è “materia erotica” votata alla felicità.